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«Senza Vaticano l’Italia sarebbe quarto mondo»

Stefano Zurlo

nostro inviato ad Arezzo

Il salotto è in penombra. E quei divanetti semicircolari, su cui si sono seduti ministri, banchieri e generali, non offrono riposo. Tocca pazientare un attimo; silenziosissimo e impeccabile nel suo gessato scuro, il Venerabile scivola all’interno della stanza, la attraversa a passi rapidi e sfoderando un sorriso di benvenuto dice semplicemente: «Eccoci qua». Ha 87 anni tondi tondi ma si muove con disinvoltura e conserva intatta una memoria da elefante. Come quelli in pietra che si scorgono qua e là nel parco di Villa Wanda. Si avvicina pensoso alla finestra: «Qui ho pianto insieme al comune amico Gino Bibbi», leggenda dell’anarchia carrarina. Si erano combattuti in Spagna, dove Gelli perse il fratello Raffaello, si sono ritrovati sessant’anni dopo prima che Bibbi, ormai un secolo sulle spalle, morisse. «A me interessano solo gli uomini, non le ideologie. Con Bibbi e con Franco Venturotti», altro anarchico versiliese, «ci siamo abbracciati come uomini. E dalla comune amicizia con loro, che purtroppo non ci sono più, nasce anche questa intervista».
Il Venerabile ha coordinate personalizzate: non distingue fra morti e vivi e lega tutti insieme nella sua contabilità con un filo resistentissimo. Dunque nella conversazione si oscilla avanti e indietro sulla macchina del tempo, ma poi, inevitabilmente, si atterra sul grande cratere: la loggia P2. «Quel 17 marzo 1981 i finanzieri perquisivano casa mia, ad Arezzo, e io ero a migliaia di chilometri di distanza in America latina. Avevano paura a buttare giù le porte, io al telefono li incoraggiai: “Non temete, sfondate, chiamate un fabbro”. Pensi che i fascicoli con tutti i membri della loggia erano nell’archivio dell’azienda sotto la voce pubblicità. Naturalmente gli investigatori li ignorarono».
Gelli concede un altro sorriso, ma questa volta il volto incorniciato da barba e baffi candidi è attraversato da un brivido ironico, quasi mefistofelico. Si nota una certa somiglianza con Renzo Montagnani. Il cronista osa la più inutile delle domande: «Ah, vuol sapere cosa ho fatto di quell’archivio? L’ho incenerito. In-ce-ne-ri-to. Anzi no, ho tenuto la documentazione relativa all’iscrizione del presidente della Liberia. Vede, la P2 era un’associazione di persone perbene».
Veramente biblioteche intere affermano il contrario e sostengono che quegli uomini abbiano tramato contro le istituzioni e siano all’origine di molti dei capitoli più oscuri della storia d’Italia. Gelli è già oltre: «La loggia era riservata, non segreta. E non aveva colpe ma annoverava alcuni dei migliori ingegni d’Italia: 35 generali dei corpi dello Stato, 6 ministri, 11 sottosegretari, 85 parlamentari, banchieri, i vertici della Rizzoli. Il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani si dimostrò senza spina dorsale, divulgò gli elenchi e lasciò esplodere lo scandalo. Invece, avrebbe dovuto dire: “Se hanno commesso dei reati perseguiteli, altrimenti lasciateli in pace”. Mai, mai avrei pensato di subire una perquisizione».
La segretaria entra discreta reggendo un sottobicchiere d’argento su cui è adagiato un biglietto azzurro. Gelli dà un’occhiata alla comunicazione: «Dica a quel signore di richiamare nel pomeriggio». Lei scompare, lui riflette: «Mi chiede il perché della loggia e chi era il nostro nemico numero uno. Le rispondo così: noi eravamo anticomunisti, perché allora il comunismo era un pericolo. Infatti il nostro nemico numero uno era il Kgb. All’archivio di Stato di Pistoia, cui ho dato recentemente le mie carte, c’è un libro che si trovava solo in Urss in cui si dice chiaramente che la P2 e Gelli sono nemici del popolo sovietico. Più chiaro di così». Inutile far scendere il Venerabile agli incroci della storia domestica, fra trame golpiste, affari sporchi e bombe orfane di padre. Lui ha coordinate planetarie. E afflati evangelici.
«Il presidente Giovanni Leone nel 1975 mi ricevette con queste parole: “Perché il popolo è così inquieto?”. Io risposi elaborando lo Schema R e poi il Piano di rinascita democratica. Questi documenti sono stati demonizzati, ma io e i miei amici volevamo solo mettere un po’ di ordine e spingere l’Italia sulla strada delle repubblica presidenziale. Volevamo un’autorità forte, volevamo rompere il monopolio dei sindacati, volevamo un esercito capace di intervenire nel caso di gravi disordini. Oggi il Paese è quello che è: sarebbe da quarto o quinto mondo se non ci fosse il Vaticano. E glielo dice un anticlericale».
Lo stato forte è rimasto nei documenti. Sul curriculum di Gelli c’è invece quel lungo alone di ombre: le manovre con pezzi dei poteri forti e pezzi dell’apparato militare. Quasi il tentativo di spingere l’Italia, in qualche modo, verso quell’approdo vagheggiato nelle carte. «Pensi che mi hanno addebitato anche una responsabilità nel presunto golpe Borghese. La notte del 7 dicembre 1970 sarei andato al Viminale con un gruppo di armati, poi avrei dato l’ordine di ritirata. Io non c’ero quella notte, in ogni caso nessun magistrato ha mai saputo spiegare perché sarei stato là, dove mi sarei rifornito d’armi, e perché avrei dato l’ordine di tornare a casa. Nulla di nulla, a parte l’amicizia con Junio Valerio Borghese, compagno di cella per 62 giorni alla fine della guerra. Nulla». Sottinteso neanche tanto: è sempre stato così. Accuse su accuse. E mai una prova.
«Pensi che mi hanno dato dieci anni, dico dieci anni per depistaggio sulla strage di Bologna. Dieci anni perché avrei calunniato anonimi terroristi stranieri e sa perché? Io ero con il commissario di polizia Elio Cioppa e lui mi disse: “Licio, cosa ne pensi di questa carneficina?”. Io dissi: “Secondo me non sono stati italiani, un italiano avrebbe temuto di colpire la moglie, un’amica, un figlio, presenti alla stazione. No, questa carneficina è opera di stranieri”. Mi hanno dato dieci anni». Pausa: «E invece io sono tornato a Bologna, ho esaminato il pavimento della stazione, credo l’abbiano ricostruito com’era prima. Io mi immagino questa scena: due o tre terroristi stanno trasportando pani di esplosivo, poi ecco l’incidente; chissà, un mozzicone di sigaretta che carambola ed entra in contatto con quell’esplosivo. Il botto. Sì, un incidente: quell’esplosivo non era stato collocato, non lo dimentichi. Io non credo alla colpevolezza di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, avrebbero confessato, ergastolo più ergastolo meno. Qualcuno ha chiamato in causa la Libia e in effetti la Libia aveva più di un motivo per avercela con noi. Ma io non sottovaluterei la pista dell’est: Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria. In quei paesi era facile trovare esplosivo».
E con Roberto Calvi, chi ce l’aveva? «Una persona che vuole impiccarsi non si riempie le tasche con cinque chili di pietre, si alleggerisce, non si appesantisce. E poi il colletto della camicia di Calvi dalle foto appare inamidato». Altro sorriso mefistofelico, rapido come un lampo. «Sì, Calvi è stato ucciso, come Sindona, il mio amico Michele Sindona è stato avvelenato. Quel caffè al cianuro nel carcere di Voghera gliel’ha servito chi non voleva che Michele parlasse dei suoi rapporti con i politici». Chi? E quali politici?
Gelli è di nuovo sotto il ritratto di Calvi: «Non capisco, era un uomo di Chiesa, quando gli dissi: “Quale sarebbe per te la colpa più grave?”, lui, senza esitazioni rispose: “Tradire mia moglie”. Non capisco in quali guai si sia cacciato: era un uomo tutto d’un pezzo, certo devo bilanciare il mio giudizio con il fatto che il vicepresidente dell’Ambrosiano Roberto Rosone subì un attentato e a sparargli fu un killer della Magliana». Per la cronaca Calvi fu il responsabile del disastro della banca e in quel crac, secondo la magistratura, ebbe un ruolo anche Gelli, condannato a 12 anni. «Mi hanno restituito 12,5 milioni di franchi svizzeri, 250 chilogrammi di oro purissimo in lingotti e la Liquidazione dell’Ambrosiano - replica l’ineffabile - ha rinunciato a mandare all’asta Villa Wanda: questo vuol dire che non mi considerano responsabile di bancarotta. Del resto basta leggere il libro dell’avvocato Gianfranco Lenzini, legale dei piccoli azionisti dell’Ambrosiano, Crack ambrosiano: il risparmio tradito per capirlo». Resta il mistero di fondo: dove sono finiti i soldi dell’Ambrosiano? «Io andrei a dare un’occhiata in Polonia, dalle parti di Solidarnosc. Un giorno Roberto mi disse: “Domani vado in Vaticano, mi devono dare 80 milioni di dollari, se non me li restituiscono si devono trasferire nel deserto”».
Il Venerabile guarda di nuovo verso la finestra che si affaccia sugli alberi secolari, sul suo volto affiora la ruga della malinconia: «Io, ormai, ho smesso di scrivere, a quest’età non si ha più la testa. Il mio ultimo libro s’intitola: “Ho finito l’inchiostro”. D’altra parte sono soddisfatto, è stata pubblicata la mia opera omnia poetica. Presto uscirà una mia biografia firmata da uno storico di prim’ordine, e nei prossimi mesi anche un film ad opera di Renzo Martinelli, il regista di Piazza delle cinque lune e di Vajont. Pensi che ho donato all’archivio di Stato di Pistoia 436 libri che parlano di me. Nel male e nel bene, anzi più nel male che nel bene». Sorride accomodante, Gelli e si congeda: «Anche a Hollywood volevano fare un film su di me.

Erano venuti qui in Italia, ci eravamo incontrati in Toscana, avevano pure tradotto il copione in inglese. Ma quando l’ho letto ho capito che erano fuori strada: non si devono mescolare massoneria e mafia. Noi massoni siamo gente perbene».

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