Serenissima fucina di talenti, altro che «schei» e capannoni

Spesso, quando mi trovo in una delle capitali riconosciute della cultura italiana, fatico a far comprendere qual è la sostanza del luogo dove vengo: il Nordest. Se scoprono che abito a Pordenone, gli amici romani o milanesi mi guardano preoccupati: «Poveretto!», dicono e mi compatiscono dal profondo del cuore. Per loro, io vivo in un posto freddo, spazzato da venti siberiani; vivo in una enorme campagna olezzante di letame; e ho per compagni di sorte personaggi rustici, bifolchi arricchiti di fresco che si divertono con sani giochi come la caccia notturna all’extracomunitario. Il luogo comune vuole che Veneto e Friuli siano terre di piccoli imprenditori lamentosi che hanno come nemico giurato lo Stato, in veste soprattutto di finanziere, e pensano morbosamente a come accaparrare denaro. Ovviamente questa avarizia di proporzioni dantesche va di pari passo con chiusura mentale e intolleranza, mancanza di scolarizzazione e disastro antropologico e culturale. Insomma non vivo in un luogo reale, vivo in una categoria mentale: gli Schei di Gian Antonio Stella. C’hai schei, non c’hai schei, quanti schei hai. Tutto qui. Chiuso il discorso sul Nordest. Quello sguardo che mi viene lanciato da amici che il destino ha fatto nascere in zone civili è insieme di compassione e di condanna, perché la situazione è ineluttabile e, se cambia, può solo peggiorare.
Non vorrei esagerare, ma a volte sembra che in Italia ci siano due grandi problemi da risolvere, la criminalità organizzata al Sud, e l’intolleranza xenofoba al Nord. Quasi quasi sembra che stiano sullo stesso piano. E a volte, se si gira per le campagne deturpate dalla architettura uniforme fatta di capannoni e case padronale posti uno di fianco all’altra, simbolo plastico della struttura economica della piccola e media impresa; oppure quando ci si ritrova a vagare d’inverno per i bar sperduti della provincia veneta, si può anche pensare che i nostri amici lontani abbiano ragione e che di tutta la grande letteratura veneta, sia rimasta solo un’opera, addirittura profetica, Storia di un patrimonio di Giovanni Comisso.
Ma non è ovviamente così. Veneto e Friuli sono regioni di imponente tradizione culturale: senza andare ai fasti della repubblica veneziana e all’umanesimo rinascimentale, basta pensare, in tempi più recenti, a Saba, Meneghello, Parise, Zanzotto e allo stesso Comisso. È vero anche, però, che l’intera generazione degli anni sessanta ha avvertito che il boom industriale stava cambiando il dna della macroregione. Molti scrittori hanno percepito quei cambiamenti socioeconomici come un insulto personale, con un disgusto prima estetico che etico. Penso a Pasolini, ma anche ad altri. Dagli anni Settanta in poi, quella tradizione culturale di così alto prestigio fa fatica a trasmettersi. La vecchia generazione, indietro sui tempi, non riesce a comunicare con la nuova. I codici di riferimento sono diversi. Tra la cultura del dopoguerra e quella attuale si è scavato un buco, che dura almeno vent’anni. E questo buco, nero come le concrezioni spaziali, ha risucchiato quasi totalmente sapienza umanistica, uso della lingua, e buone maniere letterarie che duravano da secoli. Insomma, quelli che sono venuti dopo, hanno dovuto fare a meno dei maestri. Hanno dovuto fare da soli. Non si può nemmeno dire che siano stati abbandonati. Perché l’abbandono presuppone una paternità o una adozione. E non c’è stata né l’una né l’altra. La generazione che oggi appare sulle scene letterarie ha dovuto imparare da sé il miracolo della letteratura, la rispondenza cioè tra parole e realtà esteriore. Ha dovuto scoprire con fatica il proprio posto nel mondo, il proprio senso, la propria credibilità.
Chi sostiene gli stereotipi del nordest fatto di Schei, può rimanere stupito se per esempio viene a pordenonelegge.it, uno dei festival letterari più importanti d’Italia e vede 2.500 persone seguire l’incontro di Paolo Giordano (a quanto mi risulta lo stesso Giordano è rimasto stupito), oppure vedere una coda lunga un chilometro per assistere all’incontro con Michael Cunningham. Può rimanere stupito se sa che un piccolo caso letterario di due anni fa è stato un libretto di Marsilio, I nuovi sentimenti che metteva insieme quindici scrittori del nordest perché raccontassero ognuno un sentimento declinandolo al presente e rispondendo a una domanda quanto mai pressante: «Cosa ne è rimasto dell’amore o dell’amicizia nell’età degli sms?». Nel libro figuravano i nomi più noti dell’ambiente nordestino: Romolo Bugaro, che ha scritto uno dei libri più interessanti dell’anno passato Il labirino delle passioni perdute, cronaca tragica di destini alto borghesi; Marco Franzoso, scrittore che indaga le pulsioni più controverse dell’attualità; e poi, in una lista non esaustiva, Tiziano Scarpa, Roberto Ferrucci, Umberto Casadei, Marco Bellotto, Gian Mario Villalta, Renzo di Renzo. Fra loro, c’era anche Marco Mancassola, uscito di recente con un libro straordinario La vita sessuale dei supereroi. Ma, al di là di quell’antologia, non possiamo dimenticare Tullio Avoledo, che nel suo ultimo romanzo mostra un amore poetico per la terra friulana anche se trasfigurato nell’usuale panorama apocalittico, e Giancarlo Marinelli, finalista al Campiello. Piuttosto che il padovano Massimo Carlotto, uno dei più famosi noiristi italiani. O ancora, se facciamo un salto a Trieste, Pietro Spirito, Pino Roveredo e naturalmente Susanna Tamaro, ma che fa mondo a sé. Molti degli scrittori che ho citato si conoscono e si stimano e, se non si può dire che ci siano contatti giornalieri, di certo ci si incontra, si discute, ci si scambiano impressioni di lettura e di scrittura. Per esempio, la scorsa estate sulla spiaggia di Jesolo ha avuto luogo una lettura collettiva di alcuni capitoli dell’ultimo romanzo di Mauro Covacich Prima di sparire. Ci sembrava un libro importante e, per stima e amicizia, abbiamo letto di fronte a un pubblico folto e interessato.
Alla fine, che ambiente ne risulta? Direi un ambiente ricco e variegato. Che porta sguardi dissonanti da quella che si pensa debba essere la letteratura nazionale: ossia il giallo campanilistico-gastronomico, il noir a tinte forti e poco cervello, l’ombelicalismo postmoderno che tira a Pynchon e Forster Wallace. Ci sono piuttosto ritratti cristallini dell’alta borghesia, voli stroboscopici nel sottobosco del genere americano, romanzi poetici legati al recente passato di una cultura contadina che fa i conti con il cambiamento. C’è anoressia, fallimento, guadagno, ma anche allegria e ricerca della felicità. C’è catastrofismo, ma anche una speranza pura, intatta. Verrebbe da dire indenne. C’è quindi una letteratura consapevole, che si confronta col mondo e cerca di raccontarlo. L’unico problema, perché tutti finalmente se ne accorgano, è che ancora manca l’acuto.

Voglio dire il libro che vende il solito milione di copie e scoperchia l’intero ambiente di provenienza. L’acuto commerciale ancora non c’è e, nell’ignoranza piena di luoghi comuni, questa ragione è sufficiente per identificare il nordest con gli schei.

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