Sergio Leone, il postmoderno che sfrattò dal West gli americani

Roma Nel grande garage dell’Auditorium, Sergio Leone punta lo sguardo acuto su chi passa sotto al dipinto della figlia Francesca, intitolato «Volto SL». A vent’anni dalla morte del regista romano, scomparso il 30 aprile 1989, mentre guardava in tivù Non voglio morire di Robert Wise, quella faccia sorniona e intelligente ci è ancora familiare, come dimostra l’interesse suscitato dalla mostra «Sergio Leone. Uno sguardo inedito», inaugurata nell’ambito del Festival Internazionale del Film di Roma e a cura di Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna.
Nell’allestimento di Dante Ferretti e di Francesca Lo Schiavo, suddivise in tre serie emergono centinaia di fotografie, provenienti dagli archivi della famiglia Leone, della Cineteca di Bologna e del Centro Sperimentale di Cinematografia. Così, se per noi è assodato che i cineasti americani continuino a guardare agli «spaghetti western» di leoniana memoria, è ancora utile, soprattutto per le più giovani generazioni, capire quanto sia profonda la rivoluzione apportata al mito del West dal regista di Per un pugno di dollari (1964), il primo western che gli dette fama internazionale. E che venne firmato come Bob Robertson, ovvero figlio di Roberto Roberti, il padre di Leone, regista del periodo muto. Quanto alla madre, Edvige Valcarenghi (in arte Bice Waleran), anche lei mise nelle vene di Sergio sangue d’artista, da attrice famosa del cinema italiano degli Anni Dieci. Onanismi da cinefili? Mica tanto: mentre oggi tutti s’improvvisano tutto, fa piacere scendere «per li rami» dei personaggi di talento e scoprire che partivano da lontano. Così, la fotogenia di Clint Eastwood, la bellezza di Henry Fonda, la faccia maschia di Gian Maria Volontè, il ghigno di Lee van Cleef ci vengono incontro grazie alle immagini scattate, soprattutto, dal suo fotografo di fiducia Angelo Novi, sui set pure con Pasolini e Bertolucci. «Leone è stato il primo regista postmoderno», ha scritto Jean Baudrillard, sottolineandone la modernità assoluta e la creatività all’avanguardia, comunque misconosciute dai soloni ingessati di casa nostra, oggi costretti a rivedere certi loro giudizi superficiali sulla filmografia di Leone.

Grande sognatore, narratore instancabile, l’autore di C’era una volta in America (1984) nutrì una personale mitologia del Novecento americano, molto ben definita in un articolo di Sergio stesso, ritrovato tra le carte dell’archivio Leone. «L’America... gli americani l’hanno presa soltanto in affitto. Se non si comportano bene... se i film non funzionano più, possiamo sempre sfrattarli». Ciò che lui ha fatto.

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