Letteratura

Serve una giraffa in gabbia per ritrovare la libertà

Mieko Kawakami narra di una ragazza che scopre la forza di ribellarsi osservando le bestie allo zoo

Serve una giraffa in gabbia per ritrovare la libertà

Sarai mica ingrassata?, domandò lui guardandomi in faccia. Era domenica pomeriggio ed eravamo allo zoo, seduti su una panchina di legno di fronte alla gabbia delle giraffe mentre cercavamo di mangiare a morsi un cono gelato duro come la roccia per essere rimasto più o meno sei mesi in freezer. Ti paio più grassa?, chiesi di rimando. No, forse non è quello. È che la tua faccia sembra diversa dalla settimana scorsa. Hai le guance più piene... ma è una cosa bella, rispose lui. Mmmmh, mormorai io, appoggiando i denti sulla superficie simil-scogliera del gelato, chiedendomi cosa intendesse con «è una cosa bella» riferito alle mie guance che gli sembravano più piene. Essere pieni era bello? Equivaleva a una dichiarazione di affetto? Che c'entrava quell'aggettivo con le mie guance? Notando il mio silenzio, lui provò a cambiare discorso e prese a discorrere di una coppia di giraffe nella gabbia. Perché avevano il collo così lungo, da dove derivavano il colore e le chiazze... brandelli di informazioni che lì per lì erano anche divertenti, ma che avresti dimenticato presto. Ho detto qualcosa di sbagliato?, chiese dopo con un'espressione contrita, ma ormai mi ero già scordata di quello che aveva detto prima. Sei silenziosa, pensavo fossi arrabbiata, disse. No, non è questo... scusa. Eravamo a disagio, tutti e due, e decidemmo di saltare la voliera degli uccelli tropicali e tornarcene a casa. Mi facevano male la testa e le tempie.

Quando arrivai andai a guardarmi allo specchio, e in effetti la forma del mio viso sembrava cambiata. Avevo un gonfiore strano sotto le guance. Mi presi la faccia tra le mani e mi chiesi se non mi fossero venuti gli orecchioni. Ma ti possono venire gli orecchioni a diciassette anni? Non era una malattia da bambini? E comunque quali erano i sintomi? Non avevo la febbre, ma non riuscivo a farmi passare il mal di testa e il dolore alle tempie.

A cena mia sorella più grande mi si mise a sedere davanti e cominciò a fissarmi. Ti si è ingrossata la faccia?, mi chiese. Mia madre e mio padre consumavano il loro pollo in silenzio. Forse per via di tutto quel masticare il dolore si spostò lentamente all'altezza della mascella e, ora che finimmo di cenare, mi faceva male tutto il viso. Seguitai a masticare finché non ce la feci più, poi quando mi alzai per andare in camera sbottai, con nessuno in particolare, Mi fa male la faccia. Mia madre e mio padre rimasero in silenzio. Mia sorella rise. Succede questo alle persone meschine... sono impaurite e codarde, ma odiano perdere e cercano sempre di avere un bell'aspetto. E questo gli fa tendere tutta la faccia. Ho ragione?, disse, filando in camera sua. Sopra lo sbattere dei piatti udii la voce di mio padre, per nulla familiare di questi tempi: Perché domani non vai dal dottore?

Con l'avanzare della notte il dolore al viso peggiorò. Perché non ero andata dal medico? Mi pentii di essermi messa a letto dicendomi che l'indomani sarebbe tornato tutto a posto. Nell'oscurità caliginosa gli animali che avevo visto quel giorno comparivano uno dopo l'altro per poi svanire. Erano di specie diverse, ma avevano tutti il corpo coperto di pelo marrone o bianco e un aspetto pesante. Come ci ero finita, allo zoo? Non ci volevo neanche andare; me l'avevano chiesto. Avvinta dalla puzza di erba, letame e sporcizia, avevo visto gli occhi limpidi di pecore ed elefanti rannicchiati in un ambiente minuscolo, stretto e buio. Avrei potuto dire di no. In un certo qual modo mi sentivo in colpa di essere uscita nel weekend con un ragazzo che neanche mi piaceva particolarmente. Non mi ero divertita. Quando ero con gli amici era uguale, faticavo a esprimermi le volte che volevo dire di no e la usavo come scusa per scappare. Forse sarei sempre stata così, ambigua, e al pensiero sentii gli occhi bruciare. Ma se avessi pianto, da sotto le coperte avrebbe potuto spuntare strisciando una paura irreversibile, quindi trattenni il fiato. Poi, avvertendo una strana sensazione, allungai il collo e guardai la finestra. Ed eccola lì come sempre, di là dal vetro: mia sorella, che mi fissava dal varco tra le tende con la schiena rivolta alla notte.

Mi svegliai a corto di fiato. Sarà stata piena notte ancora, perché il cielo era scuro e non si udiva il minimo rumore, nessun segno del mattino in avvicinamento. Mi portai le mani al viso e le sentii rimbalzare su qualcosa di grosso ed elastico che sembrava uscirmi dalla bocca. Era una lingua. Cresceva a dismisura, tanto da non entrarmi più in bocca, e quando abbassai lo sguardo me la vidi arrotolata sul petto. Questo spiega il dolore, pensai: la lingua cercava di scappare.

Sgorgava come schiuma soffice, senza pause, e in un attimo divenne grande come il mio intero corpo. Crebbe e crebbe fino a riversarsi giù dal letto, finendo a strisciare sul pavimento. Non c'era più dolore nella mia bocca, né c'erano più mento, faccia o testa, e quando mi girai atterrai di fianco sulla morbida lingua. Era una sensazione che non avevo mai provato prima, diversa da qualsiasi letto, erba o terra su cui mi fossi sdraiata. D'un tratto notai qualcosa di simile a un prato srotolarsi di fronte a me. Mi ci accoccolai sopra e guardai il cielo azzurro che si apriva in forma ovale. Ai miei piedi c'erano gli animali che avevo visto durante il giorno. Senza nulla a tenerli avvinti sembravano persi, ignari di come comportarsi in quella loro libertà appena ottenuta. Mi avviai nella direzione che dall'odore sembrava il sud e un vento tiepido, gigantesco prese a soffiare, e soffiare, e le ombre guizzavano e correvano sull'erba. Vidi, in una mandria di capre di montagna, mio padre e mia madre seduti uno di fronte all'altra a mangiare pollo al solito tavolo da pranzo. Erano in lacrime mentre masticavano. Ehi, non dovete continuare a mangiare, volevo dirgli, ma per via delle condizioni in cui versava la mia lingua non riuscivo a emettere alcun suono. Il pollo si raffreddava nei piatti, e loro seguitavano a muovere le dita gelate mentre masticavano, in lacrime. È sempre così, non riesco mai a parlare quando è davvero importante. Non so fare altro che guardare. Mi intristisce, mi mette voglia di fare qualcosa. Non è una bugia, questa. E allora com'è che faccio sempre finta che vada tutto bene? Perché dimentico tanto in fretta?

Allo sbattere della porta il prato si scosse e basse nuvole scure coprirono rapidamente il cielo. C'è mia sorella, pensai. O è il ragazzo con cui sono stata allo zoo, quello che conosco a malapena? Forse sono venuti insieme. La porta non smetteva di sbattere, anzi, i tonfi si intensificarono. Nell'udire un rumore di vento che non avevo mai sentito prima, alzai lo sguardo e vidi una roccia gigantesca galleggiare nel cielo. Il rumore si faceva sempre più insopportabile. La roccia si schianterà presto, pensai. Schiaccerà gli animali sull'erba e il tavolo di Padre e Madre, e creerà un buco a esatta immagine di sé.

E quindi prima che arrivassero mia sorella, il ragazzo arrotolai la lingua facendo appello a tutte le mie forze, poi inghiottii ogni cosa che si trovava davanti a me.

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