La settima parte della saga è un film videogioco. Che vuol rifare "007" ma è troppo politicamente corretto

Tom Cruise replica all'infinito se stesso e resta giovane grazie alla computer grafica in questa pellicola in uscita il 12 luglio. Ovviamente c'è tanta azione ma pure buonismo alla camomilla

La settima parte della saga è un film videogioco. Che vuol rifare "007" ma è troppo politicamente corretto

Tutto inizia da una chiave divisa in due metà che si incastrano tra loro. Ethan Hunt deve entrarne in possesso a qualsiasi costo. Strettissimo il riserbo sul suo funzionamento ma in realtà è tutto chiaro. Serve a disinnescare un'arma terrificante che mette in pericolo la sussistenza dell'umanità e l'agente segreto dell'Imf - sigla sbeffeggiata e confusa con il Fondo monetario internazionale (Fmi), bisticcio delle traduzioni e inclinazione comica del thriller - deve conquistarla. È una... Mission impossible, settima puntata della saga, in uscita mondiale da mercoledì 12 luglio con l'anticipazione dell'ottava. Manca il solito trucchetto della scena aggiuntiva dopo i titoli di coda ma la dicitura «Dead reckoning, parte uno» lascia intuire il sequel di questa sorta di erede di 007.

Identico il lavoro al confine labilissimo tra intelligence e spionaggio, più marcato nel mitico James, diverso il ruotare degli attori. Al ciclico Bond - interpretato da George Lazenby e Sean Connery, Roger Moore e Daniel Craig per non parlare delle «meteore» Timothy Dalton e Pierce Brosnan - si contrappone il persistente e immarcescibile Tom Cruise, cui l'elaborazione computerizzata restituisce sempre un'immagine da trentenne a dispetto dei sessanta già suonati. Giochino già sperimentato con Harrison Ford-Indiana Jones

Non cambia la versatilità delle sfide, per terra e nei cieli, in giro per il mondo - dalla Norvegia ad Abu Dhabi, dal centro di Roma a Venezia e all'Inghilterra - con inseguimenti in auto, moto su treni e deltaplani. Mancano solo sci, nuoto ed equitazione nel carnet delle discipline sportive del dinamico protagonista. Diverso lo charme e le frasi storiche. «Mi chiamo Bond. James Bond» è un must. E non ha la stessa efficacia di «Mi chiamo Hunt. Ethan Hunt» che infatti non la pronuncia mai e risulta più titubante davanti alle sfide estreme. Tergiversa prima di lanciarsi in moto da un dirupo per atterrare su un treno ma sopravvive a tutto come il suo predecessore.

E qui il debito con la struttura dei videogiochi è chiarissimo. Perdere una vita non significa perdere la vita ma soltanto un'opportunità. Una come tante. Il game over insomma è lontanissimo. Il discrimine è come riconquistarlo e in questa sottile arte si era cimentato anche l'agente segreto più famoso di sempre. Un segno dei tempi che si coniuga a un'altra operazione che tanto piace al grande pubblico. La serialità. Se preferite, il gusto della saga. Quel non terminare mai eppure concludersi regolarmente in un bisticcio concettuale che ha la sua spiegazione. Ogni puntata è un'avventura a se stante. Individuale. Valida e compiuta in chiave oggettiva. Ugualmente però è parte di un mosaico. Un grande affresco in cui entrano peripezie e belle donne. Armi da disinnescare e nemici da rendere inoffensivi.

In buona sostanza, lo spettatore ha la consapevolezza di andarsene a casa con un finale definito, pur sapendo che tornerà ancora a vedere uno spettacolo che non può e non deve finire perché sarebbe un lutto internazionale. E in questa sorta di buonismo alla camomilla rientra il confine sbiadito del cattivo di turno che, nell'ultima puntata di Mission: impossible - Dead reckoning parte uno, per gli amici, semplicemente Mission impossible senza nemmeno i due puntini, appare difficilmente riconoscibile. Un po' perché le leggi del politically correct dicono che anche i cattivi «così cattivi non sono mai» per citare il consumato ritornello della Bertè, un po' perché la difficile identificazione del perfido o del nemico fa tanto cinema postmoderno, rendendo più liquido anche il senso di vincere e sconfiggere chi vuol fare del male. Si punta a prevenire una sciagura più che rendere esecrabile un eventuale responsabile.

In questa prospettiva, l'unico vero cattivo doc vale più la pena derubarlo anziché ucciderlo, benché nel bel mezzo di un campiello accoltelli le donne - rivali nella missione, ovviamente - perché sarebbe un po' come far rischiare l'intera specie per colpa di un solo. Che poi si tratti di un genere dis-umano piuttosto che umano è un altro paio di maniche. Un riferimento forse neppure tanto velato ai rischi di conflitto nucleare, ricorrenti e insistenti sullo scenario internazionale attuale almeno - e fortunatamente - solo a parole. Anche in questo senso Mission impossible conserva uno stretto legame con il suo tempo, fatto di sottomarini che esplodono o implodono mentre sfidano le profondità degli abissi a caccia di verità su un mistero impenetrabile che seduce quanto preoccupa. E i corpi degli amanti dell'estremo restano dispersi in un mare inconoscibile da dove vengono invece a galla dettagli che mostrano come Ethan Hunt sia lo specchio dei suoi tempi. Più di quanto non fosse stato Bond. L'importante è non confonderli.

Chiamarlo James Hunt equivarrebbe a fondere due figure mitologiche di cinema e letteratura restituendo vita a un defunto quanto spericolato pilota della formula uno che fu. Un altro sport, insomma. Dove il game è davvero over.

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