Lorenzo Scandroglio
Quando si parla di esplorazione si è indotti a credere che il grande libro dell'avventura umana abbia esaurito le pagine ancora da scrivere. Certo, il mondo è stato percorso in lungo e in largo, i capi di ogni continente sono stati doppiati, le più alte montagne del mondo sono state scalate. Eppure, a ben guardare, le mete sono un'invenzione, luoghi su cui viene tracciato un traguardo che la comunità umana riconosce e cui attribuisce valore. Per quasi un secolo, dopo la misurazione dell'Everest, la più alta montagna del globo, gli alpinisti si sono contesi la sua cima. Prima che quel traguardo fosse tagliato nel 1952 dal neo zelandese Hillary e dallo sherpa Tenzing per conto della corona britannica, i francesi Lachenal ed Herzog avevano conquistato l'Annapurna (8091 m). Correva l'anno 1950 e l'impresa fu eccezionale: si trattava della prima montagna alta piú di 8000 metri mai scalata dall'uomo. Le montagne che superano gli 8000 metri nel mondo sono 14 e si trovano tutte in Himalaya. Sembrerebbe un fatto oggettivo ma non tutto è così semplice. La percezione di una soglia precisa sopra la quale si trova una ristretta rosa di montagne non è tale se l'unità di misura cambia. Il mondo anglosassone che utilizza come unità di misura il piede, per esempio, non percepisce affatto quella soglia. L'Everest (8.848 m) infatti è un ventinovemila piedi. K2 e Kanchenjunga (rispettivamente 8.611 e 8.598 m) sono due ventottomila piedi. Il Lhotse (8.511 m) è un ventisettemila. E così via. Insomma tutto risulta più dilatato, meno netto. Ecco perché alla corsa a tutti gli ottomila ha inizialmente partecipato quella parte della comunità alpinistica che misurava le montagne in metri. Pertanto il raggiungimento dell'Annapurna ad opera dei francesi fu considerato dagli anglosassoni certamente come un'impresa, ma pur sempre sulla decima montagna in ordine di altezza, non sul primo ottomila mai calcato dall'uomo. Fu Messner a chiudere per primo il conto dei magnifici ottomila, nel 1986, in sedici anni. Dietro di lui il polacco Kukuczka: concluse nel 1987 ma aveva cominciato 9 anni più tardi, impiegando la metà del tempo. Insomma, anche la storia dell'alpinismo himalayano, o himalaysmo, come si capisce bene da queste poche righe, è la storia di un'invenzione. L'invenzione di un traguardo.
Quando anche tutte le montagne più alte furono salite per la prima volta, in una corsa che aveva ancora il sapore della competizione fra nazioni (gli inglesi conquistarono l'Everest, i francesi l'Annapurna, gli italiani il K2, gli austriaci il Nanga Parbat), iniziò la gara a chi avrebbe effettuato per primo la salita di tutti i 14 ottomila. Non più nazioni ma individui. Oggi esiste una sorta di ristretto club, con meno di 15 uomini, dei salitori di tutte le 14 cime. Senza contare che, da un certo momento in poi, diventò rilevante il fatto di avere effettuato la salita con o senza ossigeno. Quanto detto dimostra che l'esplorazione del mondo verticale ha ancora molto da dire. Un esempio è quello dell'himalaysmo invernale. Da alcuni anni la comunità alpinistica, fra le altre mete, insegue le prime salite assolute di un ottomila in inverno, quando le temperature scendono a meno 50 gradi centigradi. Una storia monopolizzata soprattutto dai polacchi che, dalla prima salita invernale dell'Everest nel 1980 (Leszek Cichy e Krzysztof Wielicki raggiunsero la cima proprio in questi giorni di 26 anni fa, il 17 febbraio), hanno poi scalato altri 7 giganti in inverno. Lo Shisha Pangma (8027 m) costituisce un'eccezione: la sua salita invernale è stata effettuata anche dall'italiano Simone Moro, il primo ad interrompere il monopolio degli alpinisti dell'est europeo, il 14 gennaio 2005 in cordata con il polacco Piotr Morawski. Qualche settimana prima di loro, l'11 dicembre, il francese Jean Cristophe Lafaille, in rigorosa segretezza, era arrivato in cima alla stessa montagna, aveva effettuato un autoscatto e aveva fatto girare la foto per mezzo mondo rivendicando la prima salita invernale dello Shisha. Peccato che, benché le condizioni meteorologiche fossero pressoché invernali, Lafaille non abbia tenuto in considerazione il calendario che, in effetti, parla chiaro: l'inverno comincia il 21 dicembre. Pertanto la comunità alpinistica internazionale non riconobbe al francese quella che sarebbe stata la prima assoluta in inverno della montagna con il valore aggiunto della "solitaria". Lafaille incassò da tutti tanto solidarietà quanto fermezza. Decise così di rifarsi quest'anno tentando la solitaria invernale di un'altro ottomila ancora inesplorato in questa stagione: il Makalu (8463 m). Giovedì 26 gennaio, dai 7600 metri del campo più alto (una piccola tenda) allestito prima del tentativo finale, il francese aveva chiamato la moglie Katia in Francia con il satellitare: "Parto adesso - le aveva detto - domani sono in cima e sabato rientro al campo base, ai piedi della montagna".
Da allora si sono perse le sue tracce. Una squadra di soccorso (costituita da altri fortissimi alpinisti, l'americano Ed Viesturs e il finlandese Veikka Gustafsson) ha raggiunto la tendina del campo alto e non ha trovato nessun segno dell'alpinista.
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