La sfida impossibile di Blatter

Chi conosce Joseph Blatter, il colonnello, dai tempi in cui era un semplice dirigente elvetico di zona Uefa, non può stupirsi leggendo il messaggio tecnico-politico, al solito molto svizzero, da lui rilanciato qualche giorno fa, quale presidente della Fifa, a Kuala Lumpur. Blatter ha detto che, assistendo a Juve-Inter, ha notato a malincuore che nella squadra nerazzurra c'erano soltanto tre giocatori europei, dei quali nessuno italiano, mentre i bianconeri italiani erano sei. E ha annunciato che la Federcalcio mondiale punta a raggiungere un compromesso che preveda il tetto massimo di cinque presenze estere nelle formazioni di partenza.
L'osservazione e i propositi del colonnello paiono alimentati da uno scopo etico-estetico di non trascurabile valore: quello di ripristinare l'immagine delle squadre che, appartenendo a quel Paese, siano «riconoscibili» come tali.
Temo tuttavia che Blatter rischi di finire contro robusti mulini a vento. Perché anche se, secondo quanto egli afferma «con le modifiche alla Costituzione europea che entreranno in vigore a dicembre si farà esplicito riferimento allo sport», è da tenere ben presente il fenomeno di accelerata, quasi violenta apertura che ha ormai abbattuto tante barriere di tutti i tipi che difendevano il piccolo mondo antico.
I calciatori sono diventati «lavoratori» con tanto di sindacato e di procuratori e la loro strapagata possibilità di circolazione nell'ovunque è protetta da larghi margini di libertà. E poiché le società di calcio (per azioni) sono aziende, chi può impedire a un Massimo Moratti, tanto per tornare al caso limite sottolineato da Blatter, di acquistare fuori Italia quel calciatore che, a suo evidente avviso, il mercato italiano non offre? Del bilancio e delle fortune agonistiche dell'Inter risponde Moratti o il colonnello? Risponde Blatter o un presidente che - pare un'ironia - è oltretutto a capo di un club che si chiama Internazionale?
Certo sarebbe confortante assistere al recupero d'una identità originaria da parte delle squadre di un Paese. Sarebbe bello vedere che certi giovani talenti italiani non sono costretti ad andare all'estero per fare carriera.

E sarebbe utile sapere che, rimanendo in patria, avrebbero chiuso, o chiuderebbero, la porta d'ingresso a gente di fuori spesso e a torto sopravvalutata. Ma il mondo, pure e non soltanto quello del football, è diventato questo: un teatro dell'esasperazione. E forse è già troppo tardi per tentare di ricondurlo a una decente normalità.

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