Philippe Claudel
Ancora bambino, ricordo di aver pianto, quando nel 1974 la Germania di Franz Beckenbauer ha battuto, nella finale della Coppa del mondo, l'Olanda di Johann Cruyff, per 2 a 1. Johann Cruyff era un giocatore di una bellezza, un'intelligenza e una grazia abbaglianti. La squadra olandese, anche a detta del capitano tedesco di allora, era la migliore. Fu però la Germania a diventare, quel giorno, campione del mondo. Ero, all'epoca, un bambino di dodici anni. Avevo imparato che si poteva essere, a volte, superiori al proprio avversario, e malgrado ciò perdere una partita. Ma soprattutto, avevo imparato a considerare un grande campione, un genio del pallone, a considerarlo e rispettarlo. Un giocatore, che non mi ha mai deluso e che resta e resterà sempre finché morirò, un artista meraviglioso. Certo, questo mi impressionava ancora di più, perché io stesso tentavo di giocare al pallone in una piccola squadra, ma ero così poco dotato per questo sport che l'allenatore mi lasciava sempre in panchina durante le partite: guardando le evoluzioni di Johann Cruyff, avevo la senzazione di contemplare la perfezione.
Poi fu la volta di Platini, che mi diede sensazioni molto simili, senza tuttavia detronizzare l'eroe della mia infanzia. E più tardi ancora, arrivò Zidane, Zinedine Zidane. Un nome e un cognome che schioccano come la frusta di Zorro, un altro dei miei eroi preferiti, di cui seguivo le avventure sullo schermo in bianco e nero della nostra prima televisione di famiglia, quella acquistata per contemplare in piena notte, e in diretta, i primi passi dell'uomo sulla luna. Zidane. Un campione. Un immenso campione, che avrebbe certamente potuto, nel mio Pantheon personale, essere il più grande dei campioni, più grande di Johann Cruyff, dello stesso Pelè - il re ritenuto insuperabile - se non ci fosse stata quella finale del 9 luglio 2006 contro l'Italia.
L'ultima partita di Zidane, dopo la decisione annunciata di ritirarsi dalla squadra nazionale, decisione per lui già definitiva, ma che noi, i sostenitori, il pubblico, i dirigenti, il popolo francese, l'avevamo convinto a rinviare, affinché potesse assicurarci la qualifica in questa competizione. E lui ci diede retta. E grazie alla sua presenza, alla sua forza trascinatrice, eravamo riusciti a ottenere la qualifica. E sempre grazie alla sua presenza e alla sua forza, la squadra nazionale, dopo qualche inizio insipido e deludente contro la Svizzera, la Corea e il Togo, ritrovava slancio e vigore per fare una bellissima partita contro la Spagna e un incontro straordinario contro il Brasile nei quarti di finale - senza dubbio la miglior partita della Francia dai campionati europei del 2000.
Zidane. Zinedine Zidane. Dopo quel 1° luglio, in tutta la Francia, il suo nome era diventato, anzi era nuovamente diventato, una formula di felicità. Lo si scriveva dappertutto, questo «Sesamo» della speranza. Un nome, un talismano. La soluzione miracolosa per una riconciliazione, un incantesimo sussurrato da tutti, in un Paese che si sta insabbiando, in un Paese traumatizzato da un anno di crisi (i tumulti delle periferie nello scorso autunno, scioperi e manifestazioni anti-CPE alla fine dell'inverno, lo scandalo politico-economico dell'affare Clearstream in primavera), un vecchio Paese pieno di orgoglio e di pregiudizi, che si crede più furbo degli altri e non si accorge nemmeno di non essere più nulla, se non lo zimbello del mondo. Un Paese guidato da un uomo malato, che concede amnistie ai suoi amici politici, sostenendo le stupide decisioni del suo primo ministro, vivendo nel totale disconoscimento del suo popolo. Un Paese che possiede la sinistra meno a sinistra di tutta Europa, una sinistra di grandi borghesi che si annientano fra loro, per arrivare alla candidatura per le future elezioni presidenziali, ignorando quelli che si presume essi debbano rappresentare. Una sinistra, che si ritrova come ninfa egeria Ségolène Royal, a proporre soluzioni contro la delinquenza, che nemmeno l'estrema destra oserebbe appena formulare.
Per fortuna, abbiamo Zinedine Zidane. Per dimenticarci tutto questo. Per farci sognare. Per incarnare i valori del coraggio, della lealtà, del rispetto altrui. Di umanità. Ma, ahimè, c'è stato questo incontro. Questa finale. Questo primo rigore, di cattivo augurio, ingiustamente accordato dall'arbitro ai francesi. Zidane che tira, che gioca col fuoco, che segna la rete facendo «il cucchiaio» - quale audacia! O dobbiamo vedere - a posteriori - un abbozzo di suicidio nella finale di Coppa del mondo! A meno che non sia semplicemente il segno di un talento al culmine ultimo della sua arte. Poi, il magnifico pareggio di Materazzi. Un primo tempo perfettamente italiano. Un secondo tempo perfettamente francese. Un meccanismo incredibile di suspense, con le due squadre sfiancate, superbe, uguali, grandi giocatori di una parte e dell'altra, che si esauriscono nelle loro folli corse, nei tentativi, nelle riprese.
Poi... Poi, nel secondo tempo dei supplementari, questi supplementari che sono un po' le moderne metamorfosi degli antichi supplizi, dove certi semidei erano condannati per l'eternità al duro lavoro o a terribili torture... ecco questo gesto, questo gesto insensato, terribile, scandaloso, di Zidane, di Zinedine Zidane. Zidane che si gira tranquillamente verso Materazzi e lo colpisce con la testa con una violenza selvaggia, una violenza bestiale, una violenza imbecille, che era l'opposto di tutto quello che Zidane incarnava fino a quel momento, o piuttosto, di tutto quello che noi avremmo voluto che incarnasse e rappresentasse.
È strano come certi uomini riescano a rovinare il loro destino. È strano come l'uomo, creatura idiota e magnifica secondo i momenti, distrugga in un secondo ciò che ha costruito in tanti anni... Zinedine Zidane resterà ormai, checché se ne dica, quel giocatore di grande talento che, una sera, l'ultima sera della sua vita di giocatore, con un gesto dei più ordinari, dei più volgarmente ordinari, ha abbandonato i suoi compagni di squadra, i suoi ammiratori, il suo popolo - parlo del popolo del pallone, non di quello delle nazioni - ha abbandonato tutti coloro che si erano fatti di lui un modello di rettitudine, di successo e di saggezza, ha abbandonato il pantheon dei giocatori di genio per scendere la scala di qualche gradino e prender posto per sempre nei limbi incerti, dove dei grandissimi giocatori corrono dietro a un pallone che non riusciranno mai più a toccare.
La vittoria è stata rubata agli italiani, a questa bella squadra italiana che ha fatto un torneo di una regolarità eccezionale e ben meritava la vittoria - che partita contro la Germania! Ecco, Zidane ha rubato anche tutto questo, perché da me non si parla dei vincitori, o se ne parla poco. Il loro valore viene minimizzato. Si attribuisce loro una vittoria per sbaglio, per un'assenza. Perché se «lui» fosse rimasto fino alla fine, come dicono alcuni, mai l’Italia avrebbe... Piace molto da questa parte delle Alpi riscrivere una storia che non è verosimile.
Il fatto più curioso, oggi, è che il mio Paese, presidente in testa - «avete tutta l'ammirazione, l'affetto e il rispetto dell'intera nazione» - con i suoi sostenitori che lo acclamano al balcone di un grand hotel parigino, loda colui che ha sbagliato, colui che ha portato la ripugnante violenza là dove invece avrebbe dovuto essere bandita, e gli accorda un'assoluzione piena. I giornalisti francesi - nei 35 minuti dedicati alla coppa del mondo la sera del 10 luglio nel corso del principale Tg sul canale più seguito - nella quasi totalità, donne e uomini politici in cerca di voti, la stampa del Mondiale che lo ha eletto il «miglior giocatore della Coppa del mondo» - scherziamo! - tutti sembrano conservare di Zidane solo il suo lato magico. Che sia la più grande abilità del «mago» quella di far dimenticare ai suoi ammiratori la bassezza del suo ultimo giro?
Thuram piangeva dopo il fischio finale dell'arbitro. Perché, o per chi piangeva? Non lo saprò mai. Ma so perché piangevo io: due anni fa, negli spogliatoi di uno stadio parigino, un amico mi aveva fatto incontrare Zidane. Alcuni minuti rubati al tempo. Alcuni minuti, durante i quali ci siamo scambiati qualche parola, e abbiamo reciprocamente scritto una dedica sui nostri libri. Mia figlia, che aveva allora sei anni, mi accompagnava. Sorrisi. Parole gentili. Fotografia con il suo eroe. Una manciata di stelle negli occhi.
Domenica sera, era vicino a me. Vibrava. Sperava. Poi, anche lei ha visto. Ha visto il gesto di Zidane. Mi ha guardato, con un interrogativo negli occhi, nei quali non brillava più nessuna stella, ma una grande delusione. Che dirle? Che dirle? Come spiegarle l'inspiegabile, l'imperdonabile? Forse è proprio questo che non potremo mai perdonare a Zinedine Zidane: di avere seminato dei sogni, per anni e anni, e di averli falciati in un solo secondo, egoisticamente, senza sentimento, senza intelligenza.
Non bisogna mai distruggere i sogni dei bambini, di quei bambini che noi tutti siamo rimasti, più o meno. Anche se pensiamo di avere delle buone ragioni per farlo. Anche se, forse, crediamo di avere le migliori ragioni del mondo per farlo. Mai. E so bene, io, perché ho pianto quella sera.
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