Non ci sono dubbi. La collera fa bene. E piuttosto quella pubblica che quella privata. Da anni vedo sguardi preoccupati, e talvolta perfino di compatimento, in chi assiste stupefatto all’eruzione della mia ira che non sembrerebbe annunciata, se non da qualche ricordo di scontri tv, da qualcuno scambiati per sceneggiate. «È tutto calcolato, vero?», «Lo fa apposta, naturalmente». È difficile spiegare che, in molti casi, si è trattato di esibizioni in diretta, incontenibili e incontinenti, anche nel rischio di un danno, se non di cuore, di immagine. Generalmente gli eccessi di collera intervengono, come un temporale estivo dopo un tempo placido, una bonaccia ai limiti della sonnolenza. Qualcuno parla, qualcuno provoca e, improvvisamente, scatta una reazione temporalesca.
Naturalmente, in molti casi, chi ne parla, di fronte al mio atteggiamento bonario, mostra indulgenza, divertimento, spesso compiacimento. Così, in linea generale, non ne ho tratto danno, ma la condivisione e partecipazione di chi pensa: «In tempi in cui niente funziona, ci sia consentito almeno urlare». Ma soltanto poche persone hanno avuto il privilegio o l’opportunità di assistere allo scatenamento della mia ira fuori dalla televisione, nella realtà. E, come ho detto, non si è trattato di sfoghi in discussioni amorose, come potrebbe essere per un’improvvisa gelosia o per una inadempienza nei rapporti tra due persone; ma un boato, una necessità di restituire un ordine alla confusione delle idee, al pressapochismo, all’ipocrisia.
Così che, proprio sui luoghi di lavoro si manifesta la brusca e imprevista necessità di far capire che non si può andare avanti così, che un certo comportamento è connivente o passivo, e che, per cambiare, bisogna essere più severi, più intransigenti. Così, da sottosegretario, da assessore, da sindaco, in innumerevoli occasioni, ho dato sfogo a una collera costruttiva e sorprendente, con il duplice effetto di stare meglio e di ottenere qualche risultato. Tra le prime persone a comprendere questa condizione vi è un’amica editrice di Palermo, Domitilla Alessi, la quale, ormai vent’anni fa, sentendomi fare una piuttosto alterata dichiarazione di odio verso una persona tanto celebre quanto sgradevole, invece di indignarsi mi disse: «Normalmente si fanno dichiarazioni d’amore, e si tiene dentro di sé la rabbia e l’odio; tu, invece, dichiarandolo, ti liberi dell’odio, lo espelli e tieni per te, e dentro di te l’amore».
Credo che avesse ragione, e che in questa interpretazione ci sia il senso profondo dell’effetto benefico della collera, della rabbia manifestata. Essa non lavora dentro di noi rodendoci, come il rancore o come l’invidia, ma si esprime in modi parossistici, talvolta, ma liberatori. È per questo che vi assiste è sempre pronto a temere che da quelle eruzioni derivi un qualche scompenso, un «colpo» con grave rischio per la salute. È esattamente il contrario. Dopo la collera interviene un momento di placida distensione, la quiete dopo la tempesta. L’unico rischio, negli ultimi tempi, non mostrando inclinazione a un equilibrio in taluni ammirevole, è che, colpendo senza ritegno, si sia forse esagerato per difetto d’indulgenza verso i limiti degli altri, così da non poter sperare indulgenza per i propri all’occorrenza, se non confidando nell’equilibrio di cui non si è titolari.
E, ancor peggio, essere sfiorati, dopo lo sfogo liberatorio, da un senso di colpa nei confronti di qualcuno manifestamente debole per meritare tanta ira. Ma, in questo caso, si potrà contare se non si avrà troppo mortificato l’amor proprio della nostra vittima, sulla sua comprensione. Perché, è evidente, ogni eccesso, anche di collera o di ira, è un difetto.
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