Quando uno ha visto molti ritratti della grande tradizione occidentale, ha certamente incontrato personaggi straordinari, furbi e intelligenti, giovani e vecchi, attraverso gli occhi di Tiziano, Sebastiano del Piombo, Raffaello, Tintoretto, van Dyck. Uomini potenti, protagonisti della storia o di storie private, ma determinati, e sempre incrociati con il potere. Ma ha visto poche persone, pochi uomini, con i loro dubbi, le loro fragilità, i loro turbamenti. Esattamente ciò che troviamo, in modo pressoché esclusivo, in Lorenzo Lotto.
La mostra al Prado di Madrid («Lorenzo Lotto. Portraits», fino al 30 settembre) ci racconta questo: ci parla di un pittore che ha voluto entrare nell'anima degli uomini, spesso riuscendovi e, con ciò, portando davanti a noi un mondo di persone sensibili e turbate. Non ne conosco altri, di pittori, che abbiano, fino a questo punto, indagato nel cuore segreto degli uomini. So che Lorenzo Lotto questo solo fa. E forse ne è consapevole e avaro. Per incontrare individui altrettanto identificabili, ma più temerari e coraggiosi (benché sempre fragili), occorre risalire a un altro pittore, sempre in area veneta, ma molto più fermo e severo: Antonello da Messina. Nessun dubbio che Lotto lo abbia a lungo meditato. Se misuriamo il passaggio dal volto ingenuo e incantato del ragazzo dell'Accademia Carrara di Bergamo, con lo sguardo candido, di uomo forse più amato che innamorato, al Ritratto di giovane uomo del Kunsthistorisches Museum, noto ed esemplare lavoro della prima maturità, verso il 1507, non abbiamo dubbi di trovarci di fronte a un uomo fiero e dubbioso e di cui, pur non sapendo nulla, sappiamo tutto.
Fierezza? Doppiezza? Entrambe, ma non solo, e non per merito del modello, bensì del suo interprete, che si sbarazza di ogni retorica, di ogni autocelebrazione e si mostra disarmato o, meglio, armato solo della propria coscienza dimezzata, accompagnata da un terribile senso di colpa. La sua colpa ha senso di essere se è un'indole, uno strumento critico, per capire meglio il mondo, riparati dal mondo. Il pittore, capace di un capolavoro come questo, si inerpica di volto in volto, di coscienza in coscienza; e la prima, turbata, l'aveva vista nel volto rassicurante, ma attraversato da un pensiero sinistro (o dolente?), del vescovo Bernardo de' Rossi. Carattere non di mistico, de' Rossi è cupido e gaudente. Ha avuto mesi impegnativi ma deve parlarci seriamente di un problema che ci riguarda, per cui egli può esserci utile, se non decisivo, con una pratica di mondo che non ne ha soffocato la singolarità.
Quante cose ci dicono i personaggi di Lotto? Ed è per me lusinghiero che, nella mostra dei suoi ritratti al Prado i curatori, Miguel Falomir ed Enrico Maria Dal Pozzolo, mi riservino condivisioni sulla attualità del Lotto, che avrebbe in comune con il Caravaggio l'essere un pittore totalmente del Novecento, e non solo perché entrambi riscoperti in quel secolo, ma perché, almeno nel caso del Lotto (e questo riguarda in particolare i ritratti), «il tempo di Lotto coincide con il tempo di Sigmund Freud e con l'inizio della psicoanalisi». Sì, io scrissi queste parole; ma non furono un lampo critico, bensì il resoconto della sensazione che sempre abbiamo con i suoi delicatissimi personaggi: di essere uomini turbati, quando non disturbati, e di mostrare, tutti, il desiderio di parlarsi, parlarci. In verità fu il Berenson a pensarlo per primo: i personaggi del Lotto ci sono davanti «chiedendoci la pietà di uno sguardo», di poterci dire, di parlarci di sé e dei loro segreti.
Nella travolgente sequenza della mostra di Madrid si incontrano anime inquiete e dolenti di ogni tipo e di qualunque condizione. Tra i primi c'è il Ritratto di giovane uomo degli Uffizi, che fu oggetto, entrando di diritto fra le icone della contemporaneità, di un'interpretazione dell'artista concettuale Giulio Paolini che, nella sua smaliziata ingenuità, ci diede un'opera fondamentale nel suo percorso: Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Un divertimento, un inganno? Anche. Ma la prova di una disarmante, e attualissima, complicità. O, come io indico, contemporaneità. Ma il calco o il doppio di Paolini ha anche un significato notevole, fuori dall'ambito strettamente critico: perché nel 1967, benché riscoperto, Lotto era ancora pressoché uno sconosciuto; e Paolini, artista colto, si mostra in anticipo rispetto alla sensibilità dei tempi. Se non si vuole addirittura ipotizzare che l'artista concettuale mostrasse di avere visto almeno il catalogo dell'esposizione del Lotto nel 1953 in Palazzo Ducale a Venezia. Gli stili delle epoche sono nulla rispetto ai valori stabili dell'umanità. Se questo non fosse il significato, perché Lorenzo Lotto avrebbe scelto, imperscrutabilmente, il suo doppio nel nostro tempo? Doppio, o seguace che supera il maestro.
Dopo questi primi anni di folgorante verità della coscienza, di cuore messo a nudo, in dialoghi solitari, Lotto si spinge più avanti attraverso originali sperimentazioni, come nel Ritratto di Giovanni Agostino della Torre con il figlio Niccolò. La giovinezza del secondo evidenzia, oltre agli anni, l'incipiente malattia del padre, come un saluto ai sopravvissuti. In anticipo sull'analogo congedo nel Ritratto di Ludovico Grazioli, incertamente datato 1551, appartenente oggi alla fondazione della mia famiglia, e nel quale si legge la dedicatoria: «pro posteris memoria patris». In fondo ogni ritratto serve a lasciare memoria di noi ai nostri parenti. Ma nel caso della poetica lottesca la posizione sentimentale è più esplicita, con una declinazione patetica che ha il suo culmine nel Ritratto di giovane uomo delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, un vero e proprio ritratto della malinconia sembra aprirsi alla condizione pensosa di un poeta, un Leopardi prima del tempo. Suo fratello minore è il fragile giovinetto nel ritrattino del Castello sforzesco di Milano: meno ingenuo, e perciò meno cedevole. Ci sono poi ritratti sorprendenti, né celebrativi né introspettivi. Fra questi certamente il capolavoro è la Lucina Brembati, con il rebus del suo nome nella falce di Luna. Ma la donna sgraziata, dalle mani grosse e tozze e dai lineamenti appesantiti, è un prodigio di verità fisionomica e psicologica che non ha eguale, neanche in Germania. Certo, alla pittura tedesca Lotto deve aver guardato, incrociandola, fin dalle prime prove, con una sconfinata ammirazione e un'evidente discendenza dal primo ritrattista italiano: Antonello da Messina. E ciò che era, anche nel turbamento (come nella Annunciata), idea eterna nei personaggi di Antonello, diventa l'impaccio, la malinconia, la malattia, dei personaggi lotteschi. Il più «lottesco» di tutti, in questa luce, probabilmente appare il ritratto cosiddetto Trivulzio, ora a Palazzo Madama a Torino. In quel ritratto c'è un'eloquenza impareggiabile, tutta mafiosa, a partire dallo sguardo. Di qui e dallo studio dei tedeschi parte Lorenzo Lotto, e non c'è da stupirsi che Raffaello lo apprezzasse.
Si raccomandano ancora nella mostra del Prado tre capolavori: il Ritratto del vescovo Tommaso Negri, dall'arcivescovado di Spalato, vecchio severo e spiritualissimo; il Ritratto di Andrea Odoni, nelle collezioni della casa reale d'Inghilterra (il più bel ritratto di scopo. Odoni è un antiquario di carriera a Venezia); e la Lucrezia della National Gallery di Londra, con il memorabile trompe-l'il del suicidio della sua omonima, un riferimento inutile e pericoloso. E infatti io, non temendo il sortilegio, l'ho sempre indicato come uno dei capolavori della ritrattistica del secolo. Nella Lucrezia appare anche un meraviglioso gioiello, oggetti in vario modo cari a Lotto che li esibisce con compiacimento. Anche altri ritratti nel periodo terminale, come il patetico Ritratto di gentiluomo della Galleria Borghese, che sembrano bonariamente annunciare le nuvole imminenti.
Aggiunte recenti sono poi il novellamente restaurato Ritratto del balestriere e il sensibilissimo Uomo con il cappello di feltro di Ottawa, tra le più recenti acquisizioni del pittore. Ogni volta sorprendente, ogni volta intimamente parlante.
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