«Noi siamo della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni»: è una frase leggendaria, la pronuncia il mago Prospero in un momento culminante della Tempesta, uno dei capolavori assoluti di Shakespeare e di conseguenza di ogni tempo. Il mago, duca di Milano esiliato su unisola caraibica, magica, popolata di voci, paragona la nostra natura umana a quella dei sogni: impalpabili, per definizione, incerti. Appaiono e si dileguano, tale è la sostanza delluomo. Prospero sta indicando anche la realtà della scena, del teatro, che dincanto fa apparire storie, eventi, tragedie, tutte destinate a svanire nel nulla quando cala il sipario.
Purtroppo in italiano si traduce il termine «stuff» non con «stoffa», letterale, in un inglese antico e ricercato, non a caso scelto dallautore, ma con lapprossimativo «sostanza». Sostanza è termine generico, sostanza è il ferro, duro e durevole, sostanza è il legno, solido anche se corruttibile, sostanza è lacqua scorrevole e impalpabile, sostanza sono tante cose, solide o inconsistenti, più o meno dure o malleabili. La stoffa, invece, è una sostanza particolarissima: nasce dalla tessitura di fili, da un disegno che crea quella particolare, unica sostanza, dal nulla. Prima della stoffa infatti cè il vuoto: la trama, a poco a poco, ordisce un tessuto, che acquista fisionomia, ma non solidità. Copre il nostro corpo o le pareti, o un mobile, o le finestre da cui si vedrebbe il paesaggio, mutando laspetto di tutto ciò che ammanta: stoffa sono i costumi degli attori, le lenzuola dei fantasmi, stoffa è ciò che prende forma e illude proprio in quanto privo di consistenza propria. Quindi dire che siamo della stessa stoffa dei sogni significa affermare la nostra natura effimera ma anche magica: nati dal nulla, da una trama invisibile, ci muoviamo leggeri sulla scena del mondo, e ciò che muove, ci anima, è un mistero celato da quel tessuto.
In unaltra opera, la più famosa del teatro tutti i tempi, un giovane studioso, di nome Orazio, sale di notte sugli spalti del castello, su preghiera delle sentinelle terrorizzate dallapparizione, in piena oscurità, di uno spettro. Sperano che il ragazzo, uomo di grandi letture, saprà interpretare il tremendo mistero. Orazio, da uomo di cultura, abituato a ragionare, inizialmente diffida della realtà del fantasma, attribuendo la visione dei soldati a paura, superstizione, autosuggestione, incubo. Ma quando il fantasma appare, ed è il fantasma del re appena morto, Orazio non ha dubbi, lo riconosce.
Orazio è uno dei personaggi più positivi di tutta lopera di Shakespeare, è leale, generoso, rispettoso e buono. In questo caso, allinizio, subito, vediamo che è anche un forte rappresentante dellintelligenza: diffidare delle fandonie e delle superstizioni, ma non rifiutare linvisibile, se questo appare e si manifesta. Intelligente, quindi non intellettuale, non indulgente alla diceria, ma libero, capace di riconoscere anche ciò che sfugge alla sua comprensione, per il semplice fatto che è evidente. E infatti sarà lo spettro, che Orazio riconosce come vero dopo aver dubitato della sua esistenza, a svelare i retroscena della morte del re, lorrida realtà di quella corte di Danimarca, il groviglio in cui sete di potere, ingordigia, lussuria si mescolano.
Bastino questi due esempi forti per comprendere come lopera di Shakespeare, la più grande realizzazione umana di ogni tempo, sia infinita, e solleciti ogni anno, dal suo apparire sulle scende di Londra e del mondo, centinaia di messe in scena, scritti, interpretazioni dai più svariati punti di vista.
Quello politico, che un volume affronta ora con notevole intelligenza, è tuttaltro che secondario, naturalmente nellottica che ho cercato di adombrare: il senso della nostra vita, del mondo, e quindi anche delle leggi e delle regole con cui lumanità organizza la propria esistenza. Dimentichiamo certe letture politiche in senso stretto, ideologiche, degli anni Sessanta, cose ridicole che hanno alimentato tanto teatraccio. Quando si dice politico, qui, si intende la sfera in cui Socrate si interroga sulla polis, sulla città che è una manifestazione del mondo. Si intende lo spazio della scena greca, dove la polis, la città, vede rappresentare in scena i miti di fondazione delluniverso e le tragedie di cui sinnerva la storia umana.
Ha le idee molto chiare in materia un noto politologo, Ekkehart Krippendorf, che pubblica ora in Italia uno dei saggi su Shakespeare più interessanti usciti negli ultimi tempi: Shakespeare politico (Fazi, pagg. IX-346, euro 29). Nessun equivoco: lo studioso si inoltra in una zona assolutamente centrale del teatro shakespeariano, la sua riflessione sul potere, che ispira opere esplicitamente storiche, come il ciclo sui regnanti inglesi, o quello su Roma (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra), quanto tragedie in senso pieno, dove la questione politica, cioè la questione del bene e del male nella reggenza del potere, è inscindibile dalla realtà psicologica, narrativa, drammatica, in breve dalla tragedia stessa, come vediamo nella trilogia del potere e della sua dannazione in Amleto, Macbeth, Re Lear.
Lindagine su queste opere si interseca con riflessioni di altro ordine, contribuendo a una lettura articolata e originale della pur vasta e frequentatissima materia indagata, partendo da una premessa chiara, che include un proposito non certo disatteso: «Gettare una luce antica su uno dei problemi più remoti della società, ovvero quello dellorigine, della legittimazione e della funzione del potere che i pochi esercitano sui molti, in poche parole ciò che chiamiamo politica».
È interessante come uno studioso di politica sappia cogliere Shakespeare con uno sguardo aperto, curioso, sottile, molto più di tanti interpreti di professione letterati, spesso portati a letture chiuse, ideologiche, forzate.
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