Sharon e Abu Mazen prove di dialogo

È stata sostenuta di recente, fra gli altri da Sergio Luzzato sul Corriere la tesi che negli scontri per lo sgombero dei coloni dagli insediamenti di Gaza sia venuto alla luce un conflitto, destinato a svilupparsi nel futuro «fra ebrei e israeliani» che potrebbe avere come risultato una maggiore laicizzazione dello Stato di Israele. Quella di un conflitto fra anime diverse dello Stato israeliano è una tesi oltre che suggestiva plausibile, ma dubito che riguardi la crisi di Gaza e della Cisgiordania.
E del resto a resistere, più che i coloni, convinti dalle contropartite economiche offerte dal governo oltreché dalla manifesta ineluttabilità dell’abbandono, sono stati gruppi di estremisti, religiosi, certo, nazionalisti, teorici della «grande Israele» e massimalisti in genere, diremmo da noi accorsi ad alimentare una sedizione priva, peraltro, di rischi eccessivi. Nei primi giorni degli scontri i soldati hanno fermato un giovane americano venuto dagli States a combattere la sua battaglia contro il «Bush boia». E dunque l’elemento religioso, nella vicenda, c’era e ha contato. Ma non è questa la ragione della crisi vissuta da Israele.
Ero in Israele qualche mese fa, ho assistito a numerosi dibattiti fra coloni di opinioni diverse e però nutrite sempre di argomenti politici, di previsioni, di scenari eminentemente politici. Da una parte erano coloro che, nonostante l’amarezza per l’abbandono della casa, dei frutti del lavoro di trenta e più anni, apparivano rassegnati: ce lo chiede il governo del nostro Paese, non possiamo restare in queste terre a dispetto di tutti. E c’erano altri che alle comuni ragioni di amarezza, aggiungevano prospettive inquietanti: il sacrificio risulterà inutile, non avremo la pace, l’estremismo palestinese attribuirà l’abbandono di Israele all’Intifada, ne parlano già come di una nostra fuga. «Dopo Gaza Gerusalemme» si poteva leggere già nei giorni scorsi sulle mura delle case palestinesi.
Ed è questa, in effetti, la sfida che resta dopo l’abbandono dei territori che sono il risultato di una decisione unilaterale del governo di Gerusalemme. La prova imposta da Sharon al suo popolo ha incontrato il rispetto del mondo, ha provocato in una parte dell’opinione pubblica araba, e in Europa, una sorta di capovolgimento, o di mutamento profondo nei governi e nelle forze politiche sulla posizione di Sharon. Abu Mazen ha riconosciuto per primo il gesto del premier israeliano. Resta possibile in teoria che alle parole non seguano fatti concreti. Ma ciò avverrebbe a prezzo della scomparsa, col leader palestinese, di quella parte di classe dirigente alla quale si offre la concreta possibilità di strappare il proprio popolo a un destino di disperazione, di miseria e di guerra, immutabile in un prevedibile futuro. Molte cose sono cambiate, nessun leader palestinese potrà contare nel futuro sul munifico appoggio del quale Arafat ha potuto disporre grazie allo speciale rapporto con la Francia e di conseguenza con l’Unione Europea. E diverso è, rispetto all’era di Arafat l’atteggiamento di Paesi come l’Egitto, la Giordania, lo stesso regno saudita. Sharon ha osato l’inosabile, e c’è chi ne prevede la fine politica in seguito all’abbandono del suo partito, il Likud, e della destra israeliana in genere.

Ma il dovere di un politico che voglia lasciare una traccia di sé è assumere sulla sua persona i doveri che le proprie responsabilità gli impongono e questo, Sharon, lo ha saputo fare.

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