Shirley Jackson la timida penna del terrore

Con il brevissimo «La lotteria» fece tremare gli Stati Uniti

Come si fa a spaventare con le parole, a render inchiostro un brivido, un sottile malessere, quell’inquietudine che prende alla gola quando c’è un silenzio improvviso, quando una porta scricchiola nel buio della notte? È ciò che si sono chiesti tutti gli scrittori di romanzi del terrore e di ghost stories, dall’Ottocento ad oggi.
Shirley Jackson ha trovato, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del nostro secolo, una risposta tutta sua. Una risposta che potrebbe suonare così: la paura sta nella normalità, nella semplicità dolorosa, nella banalità del male. E la sua risposta ha fatto scuola, perché tra i compulsatori delle sue asciutte pagine si contano allievi di lusso come Stephen King, Nigel Kneale e Richard Matheson. Per accorgersi della sua maestria basta sfogliare La lotteria (Adelphi, pagg. 82, euro 8, traduzione di Franco Salvatorelli), una microraccolta di racconti che inquietano con fulminante rapidità. Tant’è che quando la short story che dà il nome al librino fu pubblicata sul New Yorker, correndo l’anno 1949, scoppiò un pandemonio non dissimile da quello scatenato dalla Guerra dei mondi di Orson Welles. Scrissero a centinaia, indignati. Segno che quelle pagine coglievano qualcosa dell’America della corn belt, toccandone l’inconscio. Sensibilità d’antan, diverse dalla nostra, abituata ad essere investita dagli schizzi di sangue che colpiscono la telecamera. Eppure la forza narrativa della Jackson è rimasta intatta.
All’inizio è una descrizione idillica, da riffa di campagna, da villici americani che affidano alla sorte l’estrazione di una scrofa cicciotta o di una vacca da latte. Non fosse per i bambini che raccolgono i sassi... Non fosse per la tensione, le frasi spezzate... Poi le cose, lentamente, cambiano, tutto assume l’aspetto di un rito arcaico, carico di presagi, a cui non si può sfuggire per il bene del raccolto. Allora, sfogliando, prima di avere il tempo di capire si sta già leggendo quella frase che annichilisce, senza ricorrere agli ammennicoli dell’orrore rilegato in brossura: «E poi le furono addosso». La morte fotografata come in un quadro di quell’iperrealismo così caro ai pittori a stelle e strisce. Una trama in fil di penna i cui echi riemergono evidentissimi in uno dei gioielli di Stephen King: il celeberrimo I figli del grano, contenuto nella raccolta A volte ritornano (Bompiani, pagg. 384, euro 8,80, traduzione di Hilia Brinis).
Ma il meglio di questa scrittrice timida e riservata, che si nascondeva sotto larghi occhiali, dietro silenzi tenaci, è, forse, nelle altre tre piccole perle del volumetto.

Dialoghi surreali tra paziente e dottore, l’attesa per un amore che non arriva mai, la ferocia di un fantoccio parlante... A leggerle, senza guardare la copertina, e senza coglierne il guizzo femminino, verrebbe quasi da pensare a un Dino Buzzati americano, in odor della Boutique del mistero.

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