Shopping a Chinatown dove saldi e sconti diventano una giungla

Affari anche nel quartiere cinese. Ma orientarsi tra prezzi, cartellini ed etichette «in lingua» non è facile

Saldi che più saldi di così non si può. Perché nelle vie della Chinatown meneghina, da sempre i negozietti vendono di tutto a costi decisamente stracciati. Abbigliamento, accessori, pelletteria, addirittura parrucche di ogni genere e tinta. Grandi possibilità di shopping selvaggio e, compreso nel prezzo, quell’inconfondibile profumo di wanton fritti che non ti abbandona mai.
Sono questi i giorni propizi per fare un salto in via Bramante e dintorni. Con la stagione di sconti appena aperta infatti, i prezzi dei mandarini si sono “lacerati” del tutto. Anche nel senso proprio del termine.
Accade spesso infatti, entrando in uno di questi localini, di dover chiedere al commesso dagli occhi a mandorla a quanto vende il capo in questione. La richiesta esplicita di un dato, il prezzo, che dovrebbe essere indicato sul cartellino, si rende necessaria per diversi motivi. Può capitare infatti che il cartoncino sia attaccato alla maglia prescelta ma che l’addetto si sia dimenticato di scrivere l’importo nell’apposito spazio punteggiato. Oppure succede che in origine l’importo sia stato indicato a penna, ma che dopo giorni di esposizione sia ridotto a uno stato di illeggibilità totale. Può accadere anche che qualcuno ti spieghi che l’etichetta appiccicata sull’ometto con il valore dell’abito non corrisponda all’articolo scelto, perché il capo è stato appeso sulla gruccia sbagliata e perciò il valore viene calcolato al momento. O si esagera: due cifre diverse, una sul capo e una sul suo appendino. Ma in questo caso la colpa è da imputare ai clienti che sistemano quello che provano senza attenzione. Per dovere di cronaca, bisogna riconoscere loro un’attenuante: in queste stanzette illuminate al neon, la merce è spesso più accatastata che esposta. E i commessi piuttosto che accompagnare il cliente nella scelta del capo, preferiscono continuare a chiacchierare con i numerosissimi componenti della famiglia, presente al completo nel punto vendita.
Ma torniamo alla novità di questi giorni: gli sconti. In alcuni esercizi l’indicazione «saldi» è chiara. E in italiano. In altri i prezzi sono cubitali e incredibili ma non c’è traccia del costo originario nè della percentuale del ribasso. Sempre che uno sconto sia stato effettivamente applicato. Nessun cartello comprensibile all’orizzonte. Scire nefas, dato che chiedere può non essere affatto di aiuto. Succede che il proprietario corrughi la fronte e risponda in un italiano stentato qualcosa che sembra non c’entrare nulla. Problema di lingua? O cos’altro? O forse la colpa è nostra, perché delle scritte ci sono. Sì: in cinese. E probabilmente le risposte alle nostre domande sono lì esposte. Siamo noi che ancora non ci siamo rassegnati al fatto che il mondo galoppa verso la globalizzazione. In una grande città come Milano non si può più nascondere la testa come uno struzzo e far finta di niente. Bisogna comprare un manuale di grammatica cinese e rimboccarci le maniche: è necessario studiare. La fatica può valere la pena, sempre che si apprezzi la moda made in China.
C’è ancora qualcuno che non vuole proprio aprire gli occhi davanti a una realtà alla portata di tutti? Nessun problema, per ora. Un’oasi è sempre pronta ad accogliere chi parlasse solo dialetto milanese: «Liliana Basile», «Melegari», «Chicco».

Ma «Salmoiraghi&Viganò» è un’autentica garanzia urlata già dai cognomi. Incredibilmente uno dei patronimici più diffusi in Brianza crea una sensazione di novità assoluta, evoca che ora rischia l’estinzione. Consiglio per i nostalgici: affrettatevi.

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