RomaUn encomio così caramellato per la «mitezza», la «modernità daltri tempi» o addirittura per la «gran bella scenografia elisabettiana» ancora non si era visto. Ci voleva Mario Calabresi, the untouchable, megadirettore naturale (direbbe Villaggio) da tempo designato alle vette del giornalismo. Ora è alla Stampa, prima era Repubblica e prima allAnsa, tra qualche tempo lo vedremo alla guida del Corriere della Sera, poi chissà quale altra cima scalerà. Per il momento è anche conduttore, su Raitre, di un programma partito laltro giorno (Hotel patria) e visto da poche persone (5,7% di share), ma in quelle poche tutti i critici tv dei grandi giornali, solitamente spietati, con lui dolci come il miele di castagno. Non una voce stonata nel coro a cappella per il Direttore, stimato dal Colle, dagli Elkann, da De Benedetti, dalla Mondadori, insomma un cronista dalla botte di ferro. Persino il Fatto mette in scena un ossimoro giornalistico, cioè una rubrica che si chiama «Il peggio della diretta» ma che per Calabresi fa eccezione, recuperando tutte le scorte di glucosio per sciogliersi davanti a questo «moderno giornalismo daltri tempi che ricerca nel grigio dellesistenza comune il brillante della straordinarietà», «una chiara matrice pedagogica» e via leccando.
Anche lo spazio critico della pagina spettacoli di Repubblica (ex giornale di Calabresi, che lì faceva il corrispondente da New York, un postaccio) è tutta uno slurp-slurp per dirla con Dagospia. Qui il trucco è esilarante. Non potendo dire che Hotel patria concilia il sonno, si escogita una qualità finora inedita per un programma tv: la mitezza. Prima di questa recensione-slurp pensavamo che i format dovessero essere brillanti, efficaci, divertenti, nuovi, originali etc, non «miti». Sbagliavamo perché «la voglia di mitezza è oggi tema centrale», in giro è pieno di gente che cerca la mitezza, soprattutto in tv. Lidea del programma mezzo flop (ma bellissimo, così lecchiamo anche noi) è di Paolo Ruffini, cattolicissimo (nipote di un cardinale, figlio di un ministro democristiano) direttore di Raitre ammanicato col Pd (sennò non sarebbe lì) ma desideroso di figurare bene anche col presidente della Repubblica, non si sa mai. Quale migliore occasione, dunque, che affidare un programmino al napoletanissimo (nel senso di Napolitano) direttore della Stampa? Detto fatto ed ecco luomo Fiat nella rete di Telekabul.
Lo share non aiuta, ma in compenso se va male nessuno lo scrive, se non i giornali di destra. Quelli importanti come il Corriere della Sera invece si spendono, con penne notevolissime come quella di Aldo Grasso, un punto di riferimento per lanalisi dei nostri palinsesti. Su Calabresi però non può che essere Grasso che cola, quasi tutto ma non tutto, perché il mitico critico tv di via Solferino ci mette un po di sale quando osserva il prossimo probabile direttore del Corriere «costretto da una struttura teatrale di stampo elisabettiano (più simile però a una piccionaia)», ma annotando poi che «Calabresi racconta con amore la nostra patria (deriva da «patrius» paterno), convincendo anche chi soffre nel vederla perire, come se fosse una vera patria». Massima solidarietà alla collega della Stampa che si è dovuta sorbire la recensione del suo direttore medesimo.
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