Si chiama Equitalia ma che sia equa è tutto da dimostrare

Caro Granzotto, avendo erroneamente pagato due volte la tassa rifiuti per l’anno 2007, Equitalia Esatri Spa (Agente della riscossione della provincia di Milano) mi invita per lettera a presentarmi presso i suoi sportelli per ottenere il rimborso e per eseguire una verifica complessiva della mia posizione debitoria, poiché risultavano degli scoperti a mio carico. Per poter riavere i miei soldi (e sottolineo miei) senza interessi e dopo qualche anno, hanno preteso che pagassi l’imposta di bollo, facendomi sentire non solo suddito ma anche cornuto e mazziato. Poi dall’esame della mia posizione debitoria è emerso un loro credito di euro 0,01 (un centesimo) risalente al 2001: saldato il mio oneroso debito, mi è stata consegnata regolare quietanza. Che altro dire? Di fronte a tali situazioni, mi chiedo come si possano ancora nutrire speranze sul futuro del nostro Paese. Con grandissima stima.
Milano

Si chiama Equitalia, la società incaricata della riscossione nazionale dei tributi. Equitalia, come a voler dire equità fiscale, equità di trattamento tra contribuente e fisco. Equitalia appartiene per il 51 per cento alla Agenzia delle entrate e per il 49 all’Inps. Con quel babbo e quella mamma, potrà mai essere equa? Potrà mai essere burocraticamente agile? D’accordo che l’errore è stato suo, caro Bestetti, ma rimborsare dopo anni e senza interessi una somma erroneamente versata mi par tutto meno che equo. Quanto alla richiesta di saldare un debito di un centesimo, altro che «riduzione dei costi a carico dello Stato» e «semplificazione del rapporto con il contribuente», che a parole dovrebbe essere la missione di Equitalia. Quanto sarà costato in tempo e materiale cartaceo la riscossione di quel centesimo quando esiste la formula contabile dell’arrotondamento attraverso la quale un centesimo, che sia in più o in meno poco importa, scompare dai conteggi?
E meno male che il fallo è stato suo, caro Bestetti. Ben altri guai passano i contribuenti vittime di un errore del fisco. Lei sicuramente conosce la clausola del «solve et repete», prima paga e poi protesta. Era la sprezzante immagine del rapporto di sudditanza del contribuente e della soperchieria dell’Agenzia delle imposte. Talmente iniqua che nel ’61 la Consulta la dichiarò incostituzionale, ma lei crede che da allora le cose siano cambiate? Facendo ricorso alla Commissione tributaria si richiede anche - e ci mancherebbe - la sospensione del «solve», del versamento del tributo o della parte del tributo ritenuta illegittima. Bé, se non interviene un miracolo il contribuente la sospensione se la sogna. La decisione è infatti affidata al giudice il quale deve non solo riconoscere la fondatezza del reclamo, ma anche - e obbligatoriamente - appurare che il contribuente non subisca un «periculum in mora» - ossia «danni gravi e irreparabili» - ove la sospensione non dovesse essere concessa. Una condizione, questa seconda, che se interpretata alla lettera insabbia nove ricorsi su dieci. Infatti, il dover pagare un’imposta non dovuta può anche avere conseguenze patrimoniali gravi, ma raramente irreparabili. Va dunque quasi sempre a finire che il contribuente intanto «solve» e solo dopo «repete», armandosi di santa pazienza perché l’iter del ricorso e la sua conclusione richiede anni. E altri ne occorrono per ottenere la restituzione della somma ingiustamente richiesta.

Ricordo che quando ero residente in Francia, un bel giorno un messo bussò alla mia porta: dopo essersi accertato che ero il tal dei tali mi annunciò che avevo versato qualcosa più del dovuto (730 franchi) all’Administration des contributions. Ciò detto, trasse dalla borsa a tracolla il danaro, lo contò, me lo porse, mi fece firmare una ricevuta e con un educato «A votre service» si accomiatò. Bello, eh, caro Bestetti?

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