Paolo Stefanato
Tutto ha avuto inizio con suo nonno Egidio...
«È stato un po' genio e un po' artista. Modellava l'acciaio con l'inventiva dello scultore e lo spirito dell'ingegnere», risponde Egidio «Jody» Brugola, 37 anni, terza generazione di una famiglia che ha le radici in Brianza e la vocazione nella meccanica.
La vite a incavo esagonale è diventata così famosa che ha preso il vostro stesso nome.
«L'ha inventata il nonno, appunto. Il prodotto fino a quel momento più vicino era americano, ma si trattava di una vite con la testa esagonale e per avvitarla si usava una specie di chiave inglese. La brugola è più semplice da utilizzare e dà un risultato migliore. Per questo siamo diventati primi al mondo nei settori più difficili: le testate dei motori delle auto, che sono esposte a vibrazioni e sollecitazioni, montano in gran parte pezzi prodotti da noi».
L'azienda ha avuto un successo immediato, fin dalla sua fondazione.
«Sì, già negli anni Trenta si era imposta sul mercato, poi nel Dopoguerra ha saputo cavalcare il boom economico. È stato mio padre Giannantonio a puntare sulle grandi quantità: negli anni Ottanta eravamo già il primo produttore di brugole in Europa».
Un'altra svolta l'ha data lei negli ultimi anni.
«Nel 2011, quando ho assunto la responsabilità della gestione, la crisi non era ancora alle spalle. Abbiamo razionalizzato le produzioni, rimesso a posto la finanza e aperto negli Stati Uniti. Così siamo riusciti a recuperare il fatturato perduto e ad aumentare il personale».
Quante persone avete assunto?
«Negli ultimi due anni siamo passati da 330 a 420 dipendenti».
Siete cresciuti solo negli Stati Uniti o anche in Brianza?
«In entrambi gli stabilimenti. Negli Usa abbiamo 40 persone. Il lavoro trasferito da Lissone a Plymouth è stato poi compensato dagli ordini di due nuovi clienti, Bmw e Mercedes. E cresceremo ancora. Abbiamo aperto altri tre stabilimenti in Brianza, di cui due magazzini a Desio. Abbiamo raddoppiato la componente femminile, assunto giovani, fatto molta formazione».
Però vi ha aiutato il Jobs act, non dica di no...
«Guardi, le decontribuzioni sono sempre gradite. Ma avremmo assunto lo stesso, le nuove norme non sono state determinanti».
Lei rappresenta l'Italia che funziona.
«Peccato che ce ne sia tanta che non funziona».
Pessimista?
«Direi realista. Io dico: com'è possibile che l'Italia abbia perso in cinque anni un quarto della sua produzione industriale, e che intanto vengano tolti i dazi ai prodotti cinesi. È una pazzia».
La Cina le fa paura? Il suo prodotto non è esposto a imitazioni o a concorrenza a basso prezzo?
«Noi puntiamo alla massima tecnologia, sia di prodotto che di processo, proprio perché questa costituisce una barriera pressoché invalicabile per i concorrenti. È una difesa, prima ancora di essere un elemento di competizione sul mercato».
E i prezzi?
«Il nostro è un settore di margini bassi, si vende a chilo e non a unità. Nemmeno i cinesi sarebbero in grado di batterci sui prezzi, perché i nostri sono già bassi e assicurano il massimo della qualità. Così paradossalmente siamo noi fornitori di aziende asiatiche e cinesi».
Esportate il 100% della produzione.
«L'export rende più semplice fare impresa in Italia. Anche per i pagamenti, che sono più sicuri».
Se la vite è un prodotto povero, in che cosa consiste l'innovazione?
«In due fattori paralleli. Da una parte c'è l'innovazione di processo, possibile grazie a strumenti che per qualità, durata e prezzo siano migliori. Dall'altra c'è l'innovazione di prodotto, che significa sempre più alta resistenza, seguendo l'evoluzione dei motori, che sono sempre meno grandi, con emissioni in calo. I nostri clienti ci chiedono viti più piccole e performanti».
Quali sono i valori che le hanno tramandato papà e nonno?
«L'umiltà. La passione. Il sapersi sporcare le mani. Noi siamo un'azienda del fare, non ci si tira indietro davanti a nulla e non ci si ripara dietro a una carica».
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