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Dalla Siberia all'India: la rotta per fuggire dall'inferno di Stalin

Sylvain Tesson ha seguito i sentieri disperati di chi cercava la libertà

Dalla Siberia all'India: la rotta per fuggire dall'inferno di Stalin

Una lunghissima corsa verso sud... Una fuga à marche forcée verso una libertà improbabile e una probabilissima morte. Che però è meglio del gulag. È quella che ad esempio ha compiuto Slavomir Rawicz. Rawicz era un ufficiale polacco che durante la Seconda guerra mondiale venne preso prigioniero e consegnato alla Nkvd, la temutissima polizia politica staliniana. Venne deportato prima in treno e poi, con una terrificante marcia nella taiga, in un campo di prigionia situato a trecento chilometri dal Circolo polare artico siberiano. È un inferno in cui si può solo morire.

A meno di tentare l'impossibile. Nell'aprile del 1941, sei mesi dopo essere stato incarcerato, Rawicz fugge anche se è pieno inverno, assieme a sei compagni di prigionia: altri due sono polacchi, un lettone, un lituano, uno jugoslavo e un americano.

Sono dei naufraghi in un mare di licheni, betulle e fiumi gelati, inseguiti dagli orsi e dai lupi. Il loro piano rasenta la follia ma è l'unico possibile. Per essere liberi devono puntare dalla Jacuzia verso l'India. Non hanno viveri né mappe, men che meno equipaggiamenti invernali o armi. Andando a memoria geografica pensano di raggiungere il golfo del Bengala in alcune settimane. In realtà sono migliaia di chilometri quelli che devono percorrere verso Sud. Eppure attraverseranno a marce forzate la Siberia, la Bajkalia e la Buriazia, la Mongolia, il deserto del Gobi, poi gli altopiani del Tibet e l'Himalaya, sino a raggiungere le giungle dei Sikkim. O meglio riescono a farlo in due, gli altri quattro moriranno stremati durante il tentativo. I due superstiti vengono raccolti dall'esercito britannico, in India, un anno dopo la fuga. Rawicz racconta la sua avventura in un libro del 1956 che in Occidente verrà accolto molto male. La narrazione a tratti è strampalata e imprecisa, questo è vero. Nessuno dei detrattori si pone il dubbio di come possano reagire la mente e la memoria di una persona che ha dovuto sopportare una fuga del genere. Accusano l'autore di mentire. Soprattutto non sono ancora gli anni di Arcipelago gulag di Solzenicyn. Solo anni dopo emergeranno i racconti di molti altri fuggitivi che hanno seguito lo stesso percorso verso l'India o almeno ci hanno provato.

Sono le storie che il lettore può rivivere nelle pagine del libro di Sylvain Tesson L'asse del lupo (Piano B edizioni, pagg. 276, euro 17,90) il cui eloquente sottotitolo è: Dalla Siberia all'India, sui passi degli evasi dal gulag. Il reporter e grande viaggiatore francese - vincitore di un premio Kapuscinski per la letteratura di viaggio - fa rivivere in questo libro, difficilmente etichettabile, le vicende di monaci ortodossi, sacerdoti buddisti, dissidenti, generici zeks (detenuti dei grandi canali staliniani), ebrei... che hanno percorso la rotta della disperazione che attraversava l'Himalaya.

Ma non immaginatevi un libro scritto alla scrivania, compulsando le fonti o facendo relativamente comode interviste in Russia. Tesson ha preso la Transiberiana e si è recato nel gulag a ovest di Jakutsk che potrebbe corrispondere a quello di partenza di Rawicz e poi è partito verso l'India. A piedi. Certo con una attrezzatura moderna, senza essere braccato dall'Nkvd, ma comunque a piedi per la taiga, con i suoi fiumi e i suoi orsi.

Un percorso folle, dove rischia di annegare, di essere sbranato, di congelare. Un viaggio che parte così seguendo il percorso del fiume Lena: "Affondo nel muschio fino alle ginocchia (prendere il muschio significa evadere nel gergo degli zecks), faccio fatica a penetrare nelle sterpaglie, il mio zaino s'impiglia tra giovani fusti e ogni volta che raggiungo una radura ho paura d'imbattermi in un orso. Attraverso decine di torrenti, aggrappato al mio bastone d'abete con l'acqua gelida che mi arriva al petto... Capisco perché i detenuti a volte parlano dell'evasione come del passaggio davanti al procuratore verde: il procuratore verde è la Natura e le sue forche caudine sono state, per molti fuggitivi, più temibili delle condanne dei procuratori russi". La marcia di Tesson, svolta nei primi anni Duemila, è durata otto mesi e lungo il percorso lo scrittore ha trovato tracce incredibili di questi viaggi verso Sud. A partire da quelli dei vecchi credenti, una minoranza ortodossa, perseguitata dagli Zar prima e dai comunisti poi. Ventuno di loro riuscirono a compiere il percorso di fuga verso l'India, nel 1952. Molti si sparpagliarono nelle zone isolate su questa linea di fuga. E il loro culto è sopravvissuto. Tesson ne incontra uno vecchissimo in un bosco. Si chiama Victor, vive da solo, quasi non si è accorto della caduta dell'Unione sovietica. Ha un'ascia per non avere freddo, un fucile per non avere fame, e la Bibbia per non aver paura. Ma è solo un esempio, visita miniere abbandonate nel nulla, incontra deportati lituani, capisce perché la Mongolia era il purgatorio degli evasi...

Alla fine il movente iniziale del libro, capire quanto fosse ricostruibile della storia di Slavomir Rawicz, scivola sullo sfondo. Ne esce un quadro della Russia dei fuggitivi e della Russia dopo il crollo del comunismo.

Di quella Russia remota che non viene mai raccontata ma che è stata il serbatoio della politica di Putin. Un racconto costruibile solo a piedi, percorrendo "l'asse del lupo", che da Nord a Sud segnava la speranza di un cambiamento e di un futuro. Che per molti non è mai arrivato. Ieri come oggi.

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