Siddi, il sindacalista che snobba il giornalismo

Il segretario del sindacato unico della carta stampata, stipendiato dal gruppo Espresso di De Benedetti, scrive poco ma in compenso è da tempo in prima fila nei comizi. Dal 1992 è in «distacco» e al computer preferisce le assemblee

Siddi, il sindacalista che snobba il giornalismo

Noi, noi, noi... dal palco di piazza del Popolo, il Ciceruacchio del sindacato (unico) dei giornalisti, Franco Siddi, avrà ripetuto due dozzine di volte quel «noi». E noi qui e noi là e noi su noi giù. Intendeva «noi giornalisti», ovviamente, mettendosi dunque nel novero di coloro che per professione scrivono o lavorano per un giornale, un’agenzia di stampa, un periodico, la radio o la televisione. Una millanteria perché il Siddi avrà di certo in saccoccia il tesserino dell’Ordine istituito dalla buonanima di Benito Mussolini. Ma giornalista non lo è e non so se, salvo il periodo di praticantato, lo sia mai stato.
Questo va detto e ripetuto perché nell’intervento di ieri Franco Siddi ha detto una tale caterva di fesserie che sarebbe assai scocciante fossero messe in conto alla categoria dei giornalisti che fanno i giornalisti. E che un Siddi qualsiasi s’è messo in testa di rappresentare. Mi sembra d’aver già ricordato che una delle cento, centocinquanta accuse che quel tizio rivolge a Berlusconi è quella di voler «ridimensionare gli spazi di racconto dell’Italia reale». Ebbene, chi si compiace di definire in tal modo, «spazi di racconto», la cronaca e di carambola il diritto di cronaca, può esser di tutto, ghostwriter di Dario Franceschini, partecipante all’Isola dei famosi o sindacalista. Ma non un giornalista.
D’altronde il cursus honorum del Siddi parla da sé: i primi passi da professionista li calcò non in una redazione, ma negli uffici comunali di Cagliari dove svolgeva la funzione di addetto stampa. Tre anni più tardi, l’ingresso in un quotidiano sardo del gruppo Espresso rappresentò, per «Siddi e d’intorni», come viene amabilmente chiamato dai più, l’occasione di rimettersi a fare il sindacalista (occupazione che precedentemente aveva esercitato, si può dire coi calzoni corti, in qualità di pubblicista) sostenuto, così si legge in una sua nota biografica, dal «movimento disoccupati e precari».
Componente (a vita, si direbbe) del comitato di redazione, che è la cellula sindacale interna, e animatore dei primi coordinamenti dei Comitati di redazione dei giornali locali del gruppo ricoprì per dodici anni dodici - si seguita a leggere nella preziosa nota biografica - la carica di presidente dell’Associazione della Stampa Sarda e per dieci anni quella di membro della Giunta della Federazione nazionale stampa italiana, il sindacato unico, appunto, del quale oggi è segretario. Ora, è evidente che a chi dedica tutto il suo tempo e quanto dispone di materia grigia al sindacalismo, poco o punto gliene resta per fare il giornalista. È altresì evidente che chi, come il Siddi, è in «distacco sindacale» dal 1992, il giornalismo non sa più nemmeno dove stia di casa.
Una professione che comunque non ama (e non vive come impegno civile, come diritto-dovere di informare, come missione per far trionfare la Verità, con la maiuscola, eppure tutti fardelli che Siddi afferma di trascinarsi appresso). Se l’amasse o comunque ne traesse soddisfazioni, invece di scavallarsi fra comizi e congressi, fra «tavoli» e assemblee, se ne starebbe alla macchina o altro aggeggio per scrivere.

Quei «noi» scanditi da Franco Siddi a piazza del Popolo stavano dunque a significare «noi a busta paga di De Benedetti», «noi repubblicones», «noi portatori d’acqua di Di Pietro», «noi devoti alle escort», «noi che intendiamo circoscrivere gli spazi di racconto dell’Italia reale al gossip morboso e voyeuristico». O, anche, «noi sindacalisti». Ma «noi giornalisti» proprio no. Sarebbe come se la D’Addario dicesse «noi signore».

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