Silvia Bre, lamento poetico di un inedito San Sebastiano

«Sempre perdendosi», un poemetto scomodo e per nulla consolatorio

È la scrittura che possiede una tensione a trasformarsi in voce o, al contrario, è la voce stessa a venire attratta dalla scrittura? Seguendo alcune indicazioni del grande George Steiner tutto andrebbe riguardato dall’alto, e si osserverebbe a quel punto un favoloso gioco di rimandi, un infinito rinviarsi dal testo all’oralità e al teatro e, più oltre, alla musica. E si troverebbero pagine incatalogabili perché collocate già oltre il puro suono, già al di là della phoné ma non ancora cadute completamente nella scrittura.
È il caso, singolarissimo, di Sempre perdendosi di Silvia Bre (Nottetempo, pagg. 32, euro 3): titolo emblematico, ricalcato sul secondo movimento dell’unico concerto per violino e orchestra di Beethoven. Dove il monologo (lo definiamo così, anche se ogni etichetta risulterà impropria) di un Sebastiano còlto nell’atto di morire conserva la memoria viva di sonorità laceranti, di lamentazioni, di urla che si autoconsumano e decadono nell’inerzia della nenia per farsi traccia di sé, segno. Tutto, allora, avviene fra una voce che svanisce e un discorso che, gradualmente, ne sta prendendo il posto ma non si irrigidisce, non si ossifica in significato stabile. E, dunque, nei versi (spesso durissimi, petrosi) di Silvia Bre rimane il richiamo a una fisicità dolente che la scrittura non riesce a neutralizzare, a una sorta di pre-testo mai del tutto assorbito. Che circola nelle parole, si lascia intravedere (o intra-ascoltare), si deposita come surplus sonoro e come timbro sovraccaricando lessico e sintassi d’energia esplosiva. Dietro al «dire» lavora un «dover-gridare» ancora insensato, disarticolato e notturno che la parola non sa incanalare, normalizzare, risollevare a senso diurno.
Da qui, forse, nasce l’impressione di impotenza, di risentimento, quasi di astio verso la lingua che attraversa l’intero poemetto. Sembra, allora, che una forza ottusa agisca prima di queste righe facendone il protocollo d’un malessere astratto, incausato, immotivato e, dunque, assoluto.
Da sempre, Silvia Bre coltiva una sua particolare, appartata poetica (o etica letteraria?) segnata da una sorta di antinarcisismo manifesto, disforico. Qui, affidandosi al lamento di Sebastiano, ha però lasciato esplodere e tracimare una quasi mediatica attitudine ad avvertire, ascoltare frontalmente il male in tutte le modulazioni e, insieme, ha accentuato la sua inquietante «inettitudine» a mediare verbalmente la sofferenza diffusa.

L’esito è una delle opere più scoperte e meno consolatorie lette negli ultimi anni. Dove un dolore radicale impregna ogni riga, non conosce sublimazioni, ironie né, tantomeno, cancellazioni o retribuzioni. Rimane allo stato puro, si impone come potenza primaria, anteriore a io e vita e mondo.

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