Silvio: «Si va a votare, Alfano premier»

Silvio: «Si va a votare, Alfano premier»

RomaElezioni. Al di là delle parole, quel che contano sono i fatti. E non è un dettaglio che ormai da settimane Silvio Berlusconi abbia chiesto ai suoi sondaggisti di fiducia di verificare quali siano i margini del Pdl nel caso si votasse di qui a pochi mesi. Non solo del Pdl, ma anche di una sua lista di fedelissimi (il nome potrebbe essere «Italia per sempre» ma si stanno vagliando altre ipotesi) da affiancare al Pdl e far magari capitanare da Michela Vittoria Brambilla. Così da recuperare da un parte i cosiddetti «scontenti» di centrodestra che potrebbero votare il Pdl e dall’altra soddisfare i pretoriani del «senza se e senza ma» che comunque sosterebbero il premier. Il tutto, nelle rilevazioni che si andavano elaborando ancora ieri, con Angelino Alfano candidato premier e l’ipotesi di un voto anticipato per domenica 29 gennaio 2012. È questo - al di là delle confidenze e delle diverse ipotesi sul piatto vagliate con i tanti dirigenti del Pdl che negli ultimi giorni gli hanno chiesto di farsi da parte e facendo un passo oltre i 45 minuti passati con Giorgio Napolitano - il punto della situazione. Il punto è che il Cavaliere ha già messo in moto la macchina della prossima campagna elettorale, sotto tutti i punti di vista.
Che il Cavaliere non si aspettasse quei «soli» 308 voti a favore sul Rendiconto è qualcosa più di un fatto. Come pure che ieri mattina avesse convocato a Palazzo Grazioli una lunga lista di deputati «incerti» per poi incontrare solo Isabella Bertolini e Giorgio Stracquadanio. Gli altri - da Roberto Antonione a Gabriella Carlucci - si sono ben guardati dal farsi vedere nonostante le telefonate arrivate da Palazzo Grazioli. Soprattutto la seconda, che tanto era vicina al Cavaliere fino a pochi giorni fa che perfino nel Pd e nel Fli fanno fatica ad accoglierla tra i banchi dell’opposizione. «Traditori», li definisce il premier. E per alcuni di loro ha certamente ragione, perché c’è una decisa differenza tra chi da anni fa presente i suoi mal di pancia a Denis Verdini e le sue insofferenze verso una gestione del Pdl che mai ha condiviso e chi fino a poche ore fa brigava per una stanza in più nel gruppo del Pdl e in poche ore è stato folgorato sulla via dall’Udc.
È con loro, però, che Berlusconi deve fare i conti. Con le loro reticenze. Con il fatto di non farsi neanche trovare al telefono nonostante una mattinata destinata soprattutto a questi contatti, tanto che prima del voto sul Rendiconto a Palazzo Grazioli c’è solo Gianni Letta e non c’è ombra degli altri big del Pdl. Ecco perché quando il premier sente Gianfranco Fini pronunciare quel fatidico «308» capisce che i margini sono più che ristretti. Perché pur avendole provate tutte si è comunque andati sotto la soglia garantita da chi si occupa del pallottoliere. Perché ormai sono in tanti a remare contro all’interno dello stesso Pdl, altrimenti non si spiegherebbe perché Roberto Formigoni sono ormai due giorni che chiama Roberto Rao per sapere se «finalmente ci siamo» (la notizia, non smentita, campeggia da 48 ore sul sito di Dagospia). Neanche telefona a Pier Ferdinando Casini, ma al suo «fedelissimo» Rao che probabilmente il leader dell’Udc ha cose più importanti da fare.
Elezioni, dunque. Almeno questo ha nella testa Berlusconi. Come poi davvero finirà è da vedere. Anche se con chi ha occasione di parlargli dopo l’incontro con Napolitano il premier dice chiaro che con il Quirinale c’è un gentleman agreement. Che anche il presidente della Repubblica è consapevole che «non si può fare un governo tecnico contro Berlusconi e Bossi». Anche perché, questa sarebbe la novità, non solo Gianni Letta ma anche Mario Monti, sarebbero restii a prendere un carico senza il via libera del Cavaliere (non tanto di Berlusconi in se, ma del Pdl). Insomma, l’unico davvero disponibile resterebbe Giuliano Amato ma con tutti i problemi del caso. Perché se non c’è il via libera del premier i numeri di un governo tecnico sarebbero comunque risicati.
È per questo che Berlusconi dice sul Colle di essere pronto a dimettersi ma dopo il via libera sulle legge di stabilità.

Con Napolitano, insomma, il premier prende atto di «non avere più la maggioranza» alla Camera ma rimanda a dopo il voto sui provvedimenti anti-crisi vistati dall’Ue. Che sarà prima al Senato e poi alla Camera. Secondo molti un modo per portare a casa le misure chieste da Ue e Fondo monetario ma anche per allungare i tempi e «chiudere» la finestra.

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