Economia

La sindrome iraniana si abbatte sul petrolio

Spaventano l’accento posto sui piani nucleari e le minacce agli Usa. Benzina, nuovo record: 1,259 euro il litro

Rodolfo Parietti

da Milano

La sindrome iraniana colpisce i mercati petroliferi, alimentando previsioni funeste sull’evoluzione delle quotazioni del greggio, mentre in Italia i prezzi dei carburanti schizzano alla stelle inducendo le associazioni dei consumatori a invocare un intervento calmieratore da parte del governo.
L’inattesa affermazione del leader ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad ha sorpreso gli analisti, spaventati dalle successive dichiarazioni del neo eletto presidente iraniano sulla volontà di limitare gli investimenti delle compagnie petrolifere straniere, di spingere il pedale dell’acceleratore sul programma nucleare e di limitare le esportazioni verso gli Usa. Tre elementi sufficienti ad alzare temperature già al livello di guardia: a New York, il barile è volato ieri fino a un massimo di 61 dollari, il più alto livello mai registrato da quando, nel 1983, è quotato su questo indice; in forte tensione a Londra anche il Brent, che ha oltrepassato per la prima volta la soglia dei 59 dollari.
I rappresentanti dell’Opec si mantengono in stretto contatto per deliberare un ulteriore aumento produttivo di 500mila barili al giorno. La decisione potrebbe essere presa entro la fine della settimana, ma molti osservatori sono scettici sulla possibilità che il Cartello possa invertire la tendenza. I più pessimisti non escludono anzi l’ipotesi di vedere il petrolio superare i 100 dollari. Tra questi, il presidente del Canadian energy research institute (Ceri), Vincent Lauerman, convinto che la variabile iraniana svolgerà un ruolo fondamentale nelle future quotazioni del greggio. Perché l’accento posto da Ahmadinejad sul nucleare ha il suono dei tamburi di guerra: «È quasi certo un intervento militare degli Stati Uniti - profetizza Lauerman - che avrà come target gli impianti nucleari del Paese. Questo manderà i prezzi del petrolio alle stelle». Non tutti gli analisti sono però schierati sulla linea del Ceri. Per esempio, c’è chi dubita dell’effettiva volontà di Teheran di chiudere le porte agli investitori stranieri: «L’Iran vive di petrolio, ha bisogno di esportarlo», afferma Tim Douek, numero uno della società di ricerca Utilis Energy. Altri ricordano che attualmente l’Iran, il secondo maggior produttore mondiale dopo l’Arabia Saudita, dispone di un output di circa 4 milioni di barili al giorno grazie agli sforzi finanziari di gruppi stranieri come Royal Dutch-Shell. Davide Tabarelli, presidente del centro Ricerche industriali ed energetiche (Rie), sposta invece l’analisi sulla crescente richiesta energetica, considerata alla base dei rincari. Colpa della Cina? Non si direbbe: «La vera forza è la domanda americana, che continua a tirare. Se nonostante questi picchi la domanda globale continua a crescere, paradossalmente 60 dollari il barile si può considerare un valore basso».
Di sicuro non sono considerati pochi gli 1,259 euro per ogni litro di benzina chiesti agli automobilisti che inducono il Codacons a chiedere un intervento del governo, a cominciare dall’apertura di distributori di carburanti anche nei centri commerciali, sul modello francese.

Federconsumatori e Adusbef hanno infine calcolato in circa 515 euro l’anno il maggior aggravio per le famiglie derivante dagli aumenti diretti e indiretti di combustibili e carburanti.

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