Sinistra al tramonto: dalla bandiera rossa al calzino turchese

Franceschini ostenta il nuovo simbolo «democratico»: il partito che si batteva per gli operai ora punta sul look. Il segretario si lancia in un mini strip da Moulin Rouge in segno di solidarietà a Mesiano

La misura, a dire il vero, non era azzeccatissima e il calzino si arrampicava un po’ sugli arti inferiori del segretario del Pd Dario Franceschini, che pure sembrava molto orgoglioso del suo ultimo acquisto. Tanto da sfoggiarli con orgoglio davanti alla telecamera con l’adesivo delle reti Mediaset, quando un giornalista del Tg5 si è avvicinato per intervistarlo: «Oggi non rispondo alle vostre domande. Piuttosto, inquadratemi i calzini: oggi questi sono la cosa più importante». A questo punto, Dario - come una consumata artista del Moulin Rouge - ha iniziato una sorta di mini-strip, si è sollevato i pantaloni ed ha sfoggiato davanti al mondo i suoi nuovi calzini turchesi. Per l’appunto, di almeno una misura in più del necessario.
Evidentemente la merceria dove si serve Dario Franceschini, di sabato pomeriggio non ha potuto far di meglio. Perché qui sta la notizia: l’ultima trovata mediatica del segretario del Pd, l’ultimo spot cromatico in vista delle sue primarie, è nato sabato. E, come sempre più spesso accade a un leader (leader?) che pare aver delegato la sua politica a un giornale, è nato dalla lettura di Repubblica di sabato. Pagina 3, per la precisione. Articolo a tutta pagina intitolato: «La protesta online dei magistrati: “Tutti in tribunale con i calzini turchesi”». Tanto da meritarsi la definizione di «rivoluzione dei calzini».
A scanso di equivoci, preciso che non mi sono rimbecillito. Non più del solito, quantomeno. Che non ho scambiato le pagine della politica del Giornale con quelle dedicate alle ultime sfilate di moda e che né Armani, né Versace, né Dolce e Gabbana, né altri stilisti hanno proposto nelle loro serate i calzini turchesi come nuova moda della collezione autunno-inverno. I gambaletti di cui si parla peraltro sono lunghi, non bianchi, e fino a prova contraria senza buchi. Insomma, non roba da tedeschi in vacanza sul lungomare di Rivabella e quindi con una certa eleganza connaturata: da Finollo a Genova, ad esempio, ne vendono di bellissimi, con un punto di turchese difficilmente trovabile in altri negozi e io stesso confesso di possederne un paio. Il punto è che tanta attenzione ai gambaletti nasce dal fatto che questi benedetti calzini azzurri sembrano essere diventati l’ultima frontiera della politica del centrosinistra.
La genesi della svolta della merceria nel Pd sta tutta in un servizio televisivo sul giudice Raimondo Mesiano, il magistrato della sezione civile del tribunale di Milano autore della sentenza di primo grado che condanna Fininvest a versare 750 milioni di euro alla Cir di Carlo De Benedetti come risarcimento per la «perdita di chance» dovuta alla non imparzialità di uno dei magistrati che si sono occupati della vicenda Mondadori, poi condannato per corruzione. Nel servizio andato in onda a Mattino 5 si parla delle «stravaganze» di Mesiano, una delle quali è identificata nel fatto di sedersi su una panchina: «Guardatelo, un’altra stranezza, indossa un calzino turchese». Diciamolo chiaramente: quel servizio televisivo non passerà alla storia del giornalismo per gli scoop e non pare in grado di gareggiare per il Pulitzer: vi si dice, fra l’altro, che Mesiano fuma, che va dal barbiere, che si ferma al semaforo. Insomma, un servizio sostanzialmente inutile.
Eppure, è bastato a trasformare il calzino turchese nella nuova frontiera della sinistra, nel nuovo baluardo invalicabile della democrazia, nell’ultimo avamposto della difesa dal regime. Tanto da scatenare la vena ironica del portavoce del Pdl Daniele Capezzone, liberandolo dal momento un po’ crepuscolare. Capezzone, che è una specie di Picasso delle dichiarazioni, dà il meglio di sé nel nuovo «periodo turchese»: «Dal 25 ottobre, dopo le primarie, Franceschini avrà più tempo libero e quindi più tempo anche per calzini e biancheria».
Si ride per non intristirsi. Perché è vero che, storicamente, la politica cromatica non ha mai portato niente di buono. Si trattasse delle bandiere rosse simbolo dell’oppressione comunista a tutte le latitudini, delle camicie brune o nere simboli del nazismo e del fascismo, dietro questi colori ci sono storie di libertà negate e di democrazie calpestate, con tutte le vergogne conseguenti. Ma persino quando quei colori sono sostanzialmente inoffensivi, come nel caso del verde leghista, spesso fotografano il momento meno brillante di un movimento.

Come fu, per l’appunto, il periodo secessionista e filo-Milosevic del Carroccio.
Il passaggio da Bandiera Rossa al Calzino Turchese di un partito che fu di Togliatti ed è di Franceschini sembra la perfetta dimostrazione di una storia che la prima volta è tragedia. E la seconda è farsa.

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