Ma la sinistra vota contro i terremotati

Questa ormai è una guerra all’ultimo sputo e non c’è più pietà per nessuno, neppure per gli sfollati, i senza casa, con le macerie come orizzonte. Il terremoto è ancora lì, in Abruzzo. L’ultima scossa lunedì sera, una di quelle che si sentono, fanno paura. Non è tutto passato. La Camera, ieri, approva il decreto legge sulla ricostruzione. È da qui che arriveranno i soldi. È da qui che si ricomincia, con questi numeri: 261 sì, 226 no e nove astenuti. L’opposizione ha votato, compatta, contro il decreto. Hanno votato no Franceschini, Di Pietro e Casini. E i loro partiti. Questa, dicono, è la politica. Ma la prima domanda che uno si fa è come si fa a votare contro i soldi ai terremotati? Che significa? I voti non sono soltanto numeri. Qualche volta sono anche simboli, come in questo caso. Roberto Giachetti è uno dei nove astenuti. È un deputato del Pd e davanti ai signori di Montecitorio ha pronunciato questa frase: «In un Paese normale, davanti alla sofferenza della popolazione, l’opposizione dovrebbe votare subito a favore di un decreto come questo. Il no del mio gruppo scaturisce dalla chiusura della maggioranza nell’accettare qualsiasi modifica. Ma a votare contro non ce la faccio».

Giachetti si è messo una mano sulla coscienza. Il decreto, magari, non convince. Qualcuno può dire che nel testo non sono rientrati i contributi per i non residenti. Qualcun altro può urlare che i soldi non sono abbastanza. Lo stesso Tremonti dice che altri soldi arriveranno dal governo. Nulla è perfetto. Ma in questi casi uno si astiene. Votare contro è un’altra cosa. È un no sbattuto in faccia a chi ha perso tutto. È uno schiaffo. È uno sputo. È dire a un abruzzese dell’Aquila o di Onna: non te la prendere, questa è la politica. È dire a chi aspetta, aspetta ancora. Bèccati il sole, il caldo e poi la pioggia e il freddo di una tendopoli. Il decreto è passato, ma 226 deputati hanno detto no. Forse è il caso che vadano in Abruzzo, a spiegare, occhi negli occhi, la loro scelta. Vadano lì a parlare di politica. Basta poco. Da Roma all’Aquila sono meno di due ore di auto, un po’ in salita.

I voti in Parlamento si contano, ma qualche volta si pesano. E questa storia ha un senso. Qui non solo non c’è un Paese normale, qui non c’è proprio più il Paese. Non interessa. È un particolare irrilevante. Tutta la politica italiana ormai ripete ossessiva la stessa nota: come far fuori Berlusconi. E i violini, anzi le grancasse, li suonano gli uomini dell’opposizione. Tutto il resto può andare al macero. Tutto.

L’unica cosa che conta è questa guerra politica senza quartiere, senza confine, senza pietà. L’importante è che il nemico si arrenda. Il no ai soldi per i terremotati è un simbolo. E i simboli parlano. Questa volta il messaggio è: sparate sui civili.

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