Sino all’Epifania tutti più buoni: di Fini non si parla

Caro Granzotto, il Presidente Fini rifiutando il democratico dibattito sul suo comportamento ha evidenziato oltre al noto opportunismo un elevato senso di viltà. Gli è mancato il coraggio di presentarsi ai parlamentari della Camera che presiede ed ha voluto evitare di ascoltare quelle verità che avrebbero stigmatizzato un comportamento abnorme al limite dell’illecito democratico. È comunque un politico perdente.
Aosta

Ho deciso di fare un fioretto, caro Ruggieri. Astenermi, per l’intero il periodo natalizio e dunque fino all’Epifania, dal pensare e dall’occuparmi di Gianfranco Fini. Che mi piace figurare bello tranquillo a trascorrere le festività nel caldo abbraccio dei suoi cari Tulliani nella località un po’ pacchiana (genere però apprezzato dal presidente della Camera) del Principato di Monaco. Là dove, per dirla con Baudelaire, «tout n’est qu’ordre et beauté,/luxe, calme et volupté». Ordine, bellezza e il resto punteggiate dal tinnire dei bicchieri di cristallo levati a brindisi e dal bel rombo della Ferrari che annuncia il ritorno in Boulevard Princesse Charlotte di quel simpatico scavezzacollo del cognatino, reduce da chissà quale zingarata. Figurarmi donna Eli e donna Frau intente al tombolo, mentre il loro Gianfry declama a voce alta le confortanti pagine dei Dialoghi di Seneca. Oppure me li immagino, Fini e i suoi cari, al sole di Santa Lucia (Santa Lùssia, come il Nostro, che quei posti è di casa, ben pronuncia) paradiso molto off shore delle Antille le cui acque Fini - il batiscafo umano - si diletta a penetrare tornando in superficie or con un pesce palla or con un polpo infilzato sul tridente. E anche lì, sereni, spensierati, lustri di olio solare, col rumore della risacca a sostituire quello della Ferrari. Magari, tra un «Acapulco Zombie» (vodka, tequila, rum, crema di menta e succo di pompelmo) e l’altro, due squilli al meditativo Bocchino, ritiratosi per le festività in un eremo nelle gole della Maiella, necessariamente solo soletto, senza nemmeno la compagnia dei suoi gagliardi sodali, il Briguglio e il Granata. Se proprio non in Costa Azzurra o alle Cayman, allora nel tinello di Val Cannuta a giocare a Mercante in fiera con donna Eli, donna Frau e il signorino Giancarlo, chi sorseggiando un bicchierino di Amaro Medicinale Giuliani, chi a sbocconcellare una fetta di focaccia del mercato equo e solidale (impastata dalle mani di certi indios maruamake con farina di rutabanga, acqua piovana e uova di tucano solforato).
Ovviamente so che non è così, so che avendo perduto la partita a dadi della sua vita Gianfranco Fini ha perduto anche il suo ben noto aplomb istituzionale e che dunque smoccola peggio di un camallo prendendosela col destino cinico e baro; abbaia al signorino Giancarlo; dà di matto se solo sente parlare di Ferrari e a Bocchino non telefona certo, avendo piuttosto voglia, ma così, per burla, di assoldare un killer e incaricarlo di un certo lavoretto. Per un uomo che voleva far strage del berlusconismo; che intendeva procedere al “ribaltone epocale” così da guadagnarsi la stima e dei repubblicones e della società civile “sinceramente democratica”; che certo dell’immancabile vittoria già vagheggiava palazzo Chigi e/o il Quirinale; che riponeva piena fiducia nelle sue doti di scaltro e intrallazzante politico; che con piglio fascistissimo intendeva uguagliare il Bruto delle Idi di marzo, bé, per un tipino con un ego di tal fatta ritrovarsi seppur metaforicamente in mutande dev’esser stata una mazzata di quelle che stendono.

Ragion per cui, caro Ruggieri, sebbene per nulla buonista e anzi incline al «vae victis», mi va non infierire, in questo clima natalizio che ci fa sentire tutti più buoni, su un vinto che più vinto non si può. Pertanto, qui di Fini non si parla.
Paolo Granzotto

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