Poco meno di un anno fa spiegammo come, a fronte di una politica smarrita, forse era preferibile una riforma costituzionale di tipo presidenziale e di stampo americano. Oggi quell’idea in chi come noi è notoriamente proporzionalista e parlamentarista si è ulteriormente rafforzata. La debolezza della politica è infatti ancora tutta lì, presa com’è nella tenaglia di un anonimato culturale del Partito democratico e di un iniziale sforzo per costruire il nuovo Partito della libertà. Ciò che più sgomenta è lo sbando culturale e politico del Partito democratico che rinuncia, anzi a sentire Veltroni respinge con forza le vecchie identità socialiste, comuniste e democristiane senza saper spiegare cosa mai sia questo ogm politico costruito in laboratorio e figlio sinora solo delle negazioni del passato. Il gruppo dirigente del Pd non si rende conto che balla sul ciglio di un impazzimento politico perché, privo di identità com’è, sposa la caccia alle streghe dentro le proprie fila invocando l’espulsione dei capi bastone ormai sinonimo di corruttori.
Il cannibalismo dei propri figli è tipico nella storia dell’impazzimento politico e personale. Nessuno, e meno che meno un partito politico, può vivere per molto tempo senza sapere chi è, cosa vuole, verso quale orizzonte guarda. Un’opposizione così generica cede spesso al richiamo della piazza e trasferisce nelle istituzioni le proprie fibrillazioni. Sul versante del centrodestra c’è un lungo lavoro da fare per consolidare in una sintesi più alta i filoni culturali del Partito della libertà, rafforzando una classe dirigente che possa nel tempo camminare con le proprie gambe. Il Partito della libertà a differenza del centrosinistra: a) non ha cancellato le proprie radici plurali che gli consentono di avere fin da ora una collocazione internazionale certa nel Partito popolare europeo, mentre il Partito democratico è ancora immerso nel buio della ricerca della terza via che non c’è; b) ha un leader che con la sua personalità, piaccia o no, offre una tenuta politica forte al partito che ha dunque tutto il tempo per metter mano alla propria crescita culturale e identitaria.
In questi quindici anni, a fronte di questa situazione politica sfasciata a sinistra e con un cantiere aperto nel centrodestra, c’è stata una destrutturazione costituzionale di fatto per cui la debolezza della politica si è trasferita pari pari nelle istituzioni. Grazie alle leggi elettorali varate nel ’93 e a quei premi di maggioranza che non esistono in alcun altro Paese europeo, non siamo più una democrazia parlamentare, ma non siamo ancora una democrazia presidenziale, nonostante l’indicazione del premier sulla scheda elettorale. Negli enti locali abbiamo costruito un presidenzialismo senza contrappesi, che si è spesso illanguidito in una intollerabile autoreferenzialità e in una stabilità del peggio (Bassolino e Iervolino docent). Quando c’è una crisi così vasta della politica e dei partiti (per brevità non abbiamo parlato di quelli minori, afflitti o da un liberismo proprietario o da una crescente frantumazione) il ricordo ci porta alla fine della Quarta Repubblica francese, quando l’autorevolezza dello Stato fu trasferita, con una riforma costituzionale, nel presidenzialismo, che a sua volta in tempi rapidi ritrasferì ai partiti l’autorevolezza perduta. Un presidenzialismo temperato da contrappesi di stampo americano, come quello di un Parlamento ridotto numericamente, eletto proporzionalmente, con una giusta soglia di sbarramento e con preferenze non è il governo del padrone ed è certamente più democratico del sistema propugnato da quel gruppo di intellettuali referendari che vorrebbero dare al partito che prende più voti il 55 per cento dei parlamentari, secondo la vecchia tradizione mussoliniana della legge Acerbo. È questo dunque lo scontro.
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