“Non dire le parolacce”, lo diciamo ai bambini come se fosse una regola oggettiva e non un riflesso culturale (i bambini però le imparano molto prima di quello che pensino i genitori), e però sentite qui: secondo uno studio scientifico rigoroso, le parolacce fanno esattamente l’opposto di quello che ci hanno insegnato (ma che ci hanno insegnato, poi? Gli stessi genitori le dicono in continuazione, spesso litigando anche tra di loro).
Comunque sia la ricerca è stata condotta da Richard Stephens insieme a Harry Dowber, Christopher Richardson e Nicholas B. Washmuth, tra l’Università di Keele e l’Università dell’Alabama, e è stata pubblicata su American Psychologist. Due esperimenti distinti, 192 partecipanti, un compito fisico volutamente semplice e spiacevole, il chair push-up, mantenere lo sforzo il più a lungo possibile, quel tipo di prova in cui il limite non è nei muscoli ma nella testa. L’unica variabile introdotta era linguistica: a un gruppo veniva chiesto di ripetere una parolaccia, all’altro una parola neutra, priva di contenuto emotivo, semplice.
Il risultato è netto: chi impreca resiste circa l’11 per cento in più, una differenza statisticamente significativa, sufficiente a escludere il caso. Interessante soprattutto per quello che non succede, siccome il miglioramento non è spiegato da una risposta di allarme, non è una questione di rabbia o di adrenalina, vale a dire non emerge come un semplice effetto fisiologico di tipo “fight-or-flight”.
Stephens e i suoi colleghi parlano di disinibizione di stato, un abbassamento temporaneo dell’autocontrollo appreso, quella censura interna che ci fa mollare prima del necessario. Le parolacce, spiegano, bypassano il linguaggio educato e attivano circuiti emotivi più profondi, legati al sistema limbico, gli stessi coinvolti nella percezione del dolore e dello stress, permettendo di restare nel compito senza sovraccaricare la parte razionale della mente.
Nei questionari somministrati dopo la prova chi aveva imprecato riportava maggiore fiducia e minore attenzione al fastidio, insomma una condizione compatibile con una forma di flow grezzo e funzionale. Non uno sfogo legato all’aggressività, piuttosto una scorciatoia cognitiva che allenta i freni proprio quando serve smettere di controllarsi.
Gli stessi ricercatori sono chiari sui limiti: l’effetto è circoscritto, non trasforma le persone, non migliora la performance nel lungo periodo, non giustifica il turpiloquio permanente. Funziona in compiti brevi e intensi, quando la fatica è più psicologica che muscolare (diciamo che lo sapevamo già, più o meno).
In certi momenti, suggeriscono i dati, alcune parole funzionano proprio perché rompono il controllo invece di rafforzarlo, semplicemente aiutano a resistere un po’ di più quando il cervello vorrebbe mollare prima, e forse è questo che dà fastidio, non le parolacce, ma il fatto che funzionino… Infine, aggiungerei, lo sanno da anni le forze armate, lo sapeva Rocky, lo sappiamo nel sesso (“amore” è eccitante solo la prima volta), ma non vale, per esempio, per gli automobilisti, a meno che non siano piloti in pista.
Per strada, nel traffico, è nevrosi pura, basta che non scatti immediatamente al semaforo verde che quello dietro inizia a abbaiarti come un cane rabbioso sciorinandoti tutto un turpiloquio che non trovi neppure sulla Treccani, per le parolacce che vengono gridate dai finestrini ci vorrebbe una Millecani, senza contare i gesti, dove tra dieci dita un dito vince sempre su tutti.