
Davvero la morale è diventata una moda, una morale liquida pronta al cambio di stagione? Perché abbiamo sostituito i tomi di San Tommaso e Sant'Agostino con le riviste di gossip. Lì si esibiscono come intrattenitori i «maître à porter» del «prêt à penser», proponendo principi non troppo pesanti da vestire per l'estate. E forse la colpa è un po' di Immanuel Kant troppo ottimista nell'idea che la ragione potesse reggere l'etica da sola.
Con la«morale liquida» per dirla con Zygmunt Bauman (nella foto) sembra che oggi basti la passerella di prima serata per legittimare qualunque principio leggero quanto un abito estivo. Però, se rimuoviamo gli effetti di luce del presente e indossiamo l'occhiale lungo della storia delle idee, il quadro diventa più sfaccettato. Blaise Pascal notava che l'uomo «si diverte» (divertere, cioè, deviare) per non guardare il vuoto interiore; per Søren Kierkegaard la noia è «radice di ogni male». E se la conoscenza diventa solo antidoto all'horror vacui, il rischio è che, finita la novità, subentri una noia più feroce.
La noia di chi è schiavo dei suoi appetiti con i quali esploriamo tutte le latitudini dell'infelicità. In un mondo in cui nulla è vietato tranne vietare, finché, d'un tratto, diventa proibito pensare. Con il consumismo abbiamo potuto acquistare anche il declino, ma non è stato gratis. Lo abbiamo pagato caro. Con la secolarizzazione novecentesca, la triade veritàbenebellezza ha ceduto il passo alla triade novitàdesideriovisibilità. Ci siamo privati della cultura, delle tradizioni, del necessario, illusi di conquistare il diritto al superfluo.
La sartoria industriale degli algoritmi propone sempre qualcosa a buon mercato. Da qui la percezione di una moralità effervescente, pronta a dissolversi a ogni «cambio di stagione». Se oggi la morale sembra effimera è perché si è perso il nesso tra il soggetto e un orizzonte di senso stabile: Dio, la natura o la ragione condivisa. La questione attuale non è scegliere tra «Dio o mass media», ma recuperare forme di interiorità e di comunità che lascino spazio sia all'esperienza religiosa autentica, sia al vaglio critico della ragione l'unica via per evitare una morale fast-fashion e, al tempo stesso, un ritorno a dogmatismi incapaci di parlare alla coscienza moderna. Ma per parlare alle coscienze bisogna ritornare a esercitare un uso pubblico della ragione riscoprendo principi e riflessioni capaci di far crescere gli individui nella società singolarmente e insieme.
Forse la sfida è proprio questa:
riaccendere il fuoco eracliteo (il Logos che resta) senza perdere la libertà e dimostrare che il futuro esiste ancora. Sta a noi cucire trame antiche su desideri nuovi, prima di ridurci a cambiare coscienza come si cambia T-shirt.