La sociologia che riduce la famiglia ad una Coop

Caro Granzotto, in merito alla definizione di «famiglia» fatta dalla professoressa Saraceno che propone di chiamarla «companionship», c’è quasi tutto. Si parla di «parità», «condivisione», «lavoro comune», «solidarietà al di là della passione dell’innamoramento e dello splendore della giovinezza», di un «accompagnarsi reciprocamente», eccetera. Manca, però, un fattore che ritengo fondamentale e che dà un senso alla famiglia, mentre resta un optional alla «companionship»: generare nuove vite, riprodursi, perpetuarsi. Naturalmente può succedere che i figli non vengano, ma ciò non toglie che è quello a dare l’impronta all’istituto matrimoniale che può essere affiancato, ma mai sostituito, da «companionship» o cose del genere. Il matrimonio «rato», ma non consumato, perde infatti la sua essenza e così è sempre stato, da che mondo è mondo.


La professoressa Chiara Saraceno è una sociologa, caro Allegretti. Per di più docente di quella saccente fuffa chiamata sociologia della famiglia. E noi sappiamo come la vedono, i sociologi: l’umanità è un verminaio, un ammasso informe di fessi col botto che si comportano, fanno e dicono senza realmente sapere perché si comportano, fanno e dicono in quel modo. Per fortuna, alla sommità di quella montagna di strame che siamo noi, ci son loro, i sociologi. I quali, come si fa coi bambini scemi, ci chiariscono la rava e la fava della vita, coi suoi annessi e connessi. Mostrando una compiaciuta tolleranza per gli atti contrari al diritto naturale (per loro un assassino non è mai un assassino, ma una vittima: della società, delle periferie, del malessere giovanile, del principio di autorità, della competitività, dello star system, eccetera). E viva insofferenza per le virtù (ritenute forme di masochismo) e per culture tradizionali (che vorrebbero stemperare nel multiculturalismo delle società multietniche, multireligiose, multi tutto). Di qui il vezzo saracenesco di voler ribattezzare il matrimonio in companionship. Di ridurre la famiglia ad una Coop. Dove i figli non sono contemplati nemmeno in offerta di fine stagione.
Per tornare alla sua obiezione, caro Allegretti, la consapevolezza che ancorché rato, cioè regolarmente celebrato, il matrimonio non sia pienamente concluso ove non venga consumato al fine della procreazione, ebbe una pittoresca conferma nel Cinquecento, quando, nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi, convolarono a nozze Elisabetta di Valois (figlia di Enrico II di Francia e di Caterina de’ Medici) e Filippo II di Spagna. In un trionfo di simbolismi - siamo, appunto, nel Cinquecento e ad unirsi in matrimonio erano due teste coronate, e che corone - nel corso della cerimonia Filippo venne sempre indicato come Sua Assenza. Costretto al letto da una fastidiosa costipazione, il Re era rappresentato infatti da don Fernando Alvarez de Toledo y Pimentel, il Duca d’Alba. Fu il duca a pronunciare il «sì» di Sua Assenza e fu il duca a «consumare» - sempre per procura, cosa va a pensare, caro Allegretti - il matrimonio. Avvenne dunque che a conclusione del rito religioso, in un apposito locale della sagrestia e alla presenza di testimoni la quattordicenne Elisabetta fu fatta adagiare su di un giaciglio, la gamba destra nuda fino all’altezza del ginocchio.

Ciò che fece anche il duca d’Alba, stendendosi a fianco della sposa dopo essersi denudata la gamba sinistra. Per un attimo le due gambe si toccarono e al contatto, fra gli applausi dei presenti, il matrimonio fu dichiarato consumato.

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