L’allenatore Arrigo Sacchi nel 2001 lasciò la guida del Parma in seguito a un attacco di panico con tachicardia e febbre alta patito prima di una partita a Verona. L’attrice Lucrezia Lante della Rovere fu colta da un attacco di panico al momento di apparire come ospite al Maurizio Costanzo Show. Una delle figlie di Silvio Berlusconi, Barbara, scappava dall’aula dell’università in preda a un attacco di panico ogniqualvolta doveva affrontare l’esame col professor Guido Rossi, che gli amici le avevano descritto come acerrimo nemico del padre: riuscì a sostenerlo solo al quarto tentativo. Il musicista Giovanni Allevi, autore-rivelazione del libro La musica in testa, al suo primo attacco di panico finì al pronto soccorso: mentre l’ambulanza lo trasportava al Policlinico di Milano, pensò che panico viene da Pan, il dio Tutto, quindi «non è l’incontro con un vuoto paralizzante, ma è l’esperienza del nostro tutto, della dirompente energia creativa che è dentro ognuno di noi», e si sentì «travolto dal tutto, dal troppo, da un’emozione incontenibile», e s’ispirò all’ululato della sirena, «una dolce melodia in Sol bemolle», per comporre Panic, l’unico brano per pianoforte entrato nell’hit-parade della musica leggera accanto ai Cd di Ligabue e Zucchero. Da quel giorno Allevi ha deciso che «il panico è un dono».
Il professor Rosario Sorrentino no, ritiene che questa sindrome non sia affatto un dono ma una grande tragedia, «una “bugia” del cervello che può rovinarci la vita», come ha scritto sulla copertina di Panico, il libro edito da Mondadori in uscita martedì prossimo; una copertina rossa sormontata da un punto esclamativo nero, per dare subito l’idea di un male pericoloso, sconvolgente, che i pazienti descrivono come l’irrompere nella loro esistenza di un repentino e profondissimo senso di morte. Al fondatore dell’Ircap (Istituto di ricerca e cura degli attacchi di panico) sfuggono totalmente gli aspetti poetici e le potenzialità creative di questa patologia, dalla quale è riuscito ad affrancare per sempre i cantautori Franco Califano e Sergio Cammariere, l’attore Alessandro Gassman e decine di altri Vip che non vuol nominare. Anche Cinzia Tani, scrittrice e conduttrice televisiva specializzata in storie noir che firma con lui Panico, è stata una sua paziente.
Come Allevi, pure Sorrentino è però in qualche modo grato all’infida malattia mentale che combatte ogni giorno: senza di essa, 15 anni fa non avrebbe conosciuto sua moglie, Maria Grazia, e non sarebbe nata sua figlia Giulia, che oggi frequenta la seconda media. «Andai negli studi di Teleregione, un’emittente romana, per un dibattito. L’intervistatrice era Maria Grazia. La vidi agitatissima. Lei ha un attacco di panico, le dissi. La nostra storia d’amore cominciò così. Non si curava da anni. Meglio: s’illudeva di farlo con la psicoanalisi».
Il professor Sorrentino è un nemico giurato dei discepoli di Freud, Jung, Adler, Abraham, Lacan, dei pensatori alla Umberto Galimberti, per capirci, che confondono la malattia mentale col disagio esistenziale. «Chiusi nei loro salottini, pretendono dai pazienti la vocazione al dolore, elogiano la sofferenza, criminalizzano i farmaci e sequestrano per 15 o 20 anni una persona che soffre, costringendola a parlare della madre, del padre, dei nonni. Questa non è una cura, i pazienti lo devono sapere. Perché il panico è un inquilino prepotente del cervello e nel frattempo le sue aggressioni continuano e peggiorano. Anche Maria Grazia, vittima dell’impostura culturale e ideologica, non voleva saperne delle medicine. Le prime benzodiazepine le ha prese abbracciata a me. Oggi sta bene».
Il neurologo insegna anatomia del cervello alla Sapienza di Roma. Ha cominciato a occuparsi degli attacchi di panico una ventina d’anni fa alla Columbia University di New York, dove svolgeva studi clinici di neuropsicologia e farmacologia sul morbo di Alzheimer. È stato il primo al mondo, con l’aiuto del neuroradiologo Stefano Bastianello, a filmare nell’encefalo, con la risonanza magnetica funzionale, un attacco di panico indotto in una paziente mediante stimolo verbale. Oggi è considerato il massimo esperto italiano in materia. Lui nega: «Giovanni Battista Cassano e Giampaolo Perna sono molto più bravi di me». Una dote ce l’ha di sicuro: l’occhio clinico. Senza che ci fossimo mai visti prima, dopo mezz’ora d’intervista mi ha diagnosticato con impressionante precisione i malanni che mi tengono compagnia da anni. Poi ha fissato lo sguardo verso un punto indefinibile del vuoto, come se dovesse leggere su un immaginario gobbo elettronico le frasi che gli fluivano dalla bocca tornite, senza inciampi, una di seguito all’altra, una più assertiva dell’altra.
Che cos’è un attacco di panico?
«Un’insorgenza improvvisa, rapida, in pieno benessere e a ciel sereno di un tremendo disagio. Sul piano fisico si manifesta con palpitazioni, tremore, senso di soffocamento e di vertigine, difficoltà respiratoria, sudorazione, dolori al torace che fanno pensare a un infarto. Sul piano psichico con un’angoscia immotivata. Il soggetto colpito è catapultato in una penosa solitudine, prova disorientamento, distacco dall’ambiente, quasi che la mente si separasse dal corpo. Il primo attacco assomiglia a una palla da tennis scagliata con grande forza su un tavolo coperto di lenticchie. Questo ricordo spaventoso viene custodito nell’ippocampo, che per il cervello è come la scatola nera degli aerei».
Quanto dura?
«Da pochi minuti fino a 20, e oltre. Ma la percezione del tempo è dilatata e il soggetto ha la sensazione allucinante di non potere uscirne, se non impazzendo o morendo».
Che differenza c’è fra panico e paura?
«Il panico è un tranello ben congegnato: l’encefalo ci vuol convincere di un pericolo inesistente, aderisce a una bugia che preannuncia una catastrofe. Invece la paura è una risorsa, un’emozione primordiale che c’informa di un pericolo reale e ci predispone o ad affrontarlo o a fuggire, quindi è funzionale all’istinto di sopravvivenza».
Ha mai avuto un attacco di panico?
«No, ma è come se lo avessi avuto. Ogni giorno affronto un viaggio col biglietto di ritorno per riportare indietro i miei pazienti».
Perché lei e io non soffriamo di attacchi di panico?
«C’entra una predisposizione genetica: spesso li riscontro fra parenti di primo e secondo grado e su più persone di una stessa famiglia. E poi intervengono fattori scatenanti: un lutto, una relazione sentimentale che finisce, lo stress cronico, l’assunzione di sostanze stupefacenti come l’hashish e la cocaina. Nel mio libro Siamo ciò che respiriamo ho anche avanzato un’ipotesi ambientale».
Vale a dire?
«Sono partito dalla constatazione che gli attacchi di panico sopraggiungono soprattutto in luoghi affollati - aerei, treni, discoteche, aule scolastiche - dove predomina un elemento invisibile, inodore e incolore: l’anidride carbonica. Un gas di scarico, una sorta di smog umano. Perciò mi sono rivolto al mio collega Livio De Santoli, professore ordinario alla Sapienza, esperto in misurazioni della ventilazione ambientale, e in effetti abbiamo scoperto che in questi luoghi la quantità di anidride carbonica arriva a superare del 300% il limite massimo fissato dall’Oms: 4.000 parti per milione anziché 1.000».
Che cosa fa l’anidride carbonica?
«Una volta inalata, va a stimolare dei recettori, localizzati nel tronco encefalico, deputati ad analizzare la qualità dell’aria e a convogliare queste informazioni in una zona del cervello chiamata locus coeruleus, una specie di radar in contatto permanente con l’amigdala, cioè con l’interruttore del panico. Ora lei immagini di trovarsi in una metropolitana affollata all’ora di punta. I sensori, valutata la pessima qualità dell’aria, informano i centri nervosi del pericolo che incombe. Dal locus coeruleus parte una scarica di noradrenalina, che raggiunge l’amigdala e fa scattare i primi sintomi dell’attacco di panico».
Quanti italiani ne soffrono?
«In forma cronica circa 2 milioni, prevalentemente dai 16 ai 40 anni. Ma l’eccesso di stress sta allargando la forchetta».
Vengono curati a casa o negli ospedali?
«Io direi che vengono trascurati sia a casa che negli ospedali. La reazione dei medici al pronto soccorso di solito è questa: “Non è niente, è solo un attacco di panico”. Idem i parenti: “Suvvia, non è nulla”. In questo modo si delegittima il disturbo e si abbandona il malato a se stesso».
Si può guarire?
«Sì. Lo sottolineo con forza: sì. La terapia farmacologica è il pilastro fondamentale. I principi attivi più usati sono paroxetina, fluoxetina, citalopram e sertralina. Che non producono, al contrario della psicoanalisi, alcuna dipendenza. Si tratta di inibitori selettivi per la ricaptazione della serotonina, meglio conosciuti con l’acronimo inglese Ssri, impropriamente detti antidepressivi perché depressione e attacchi di panico sono cugini di primo grado».
Mi ricordi come agiscono gli Ssri, ché me lo dimentico sempre.
«La serotonina è una sostanza ormonale, un neurotrasmettitore del sistema nervoso centrale. Nell’encefalo abbiamo 100 miliardi di neuroni. Gli Ssri inducono la serotonina, una volta liberata da un neurone e consegnata al neurone successivo, a prolungare la sua permanenza, evitando che sia troppo in fretta ricaptata, cioè catturata, dal neurone che l’ha rilasciata. Quindi gli Ssri sono di grande aiuto per ripristinare una condizione di equilibrio biologico sui centri nervosi divenuti particolarmente irritabili proprio perché è scemata la quantità di serotonina disponibile; protraggono il dialogo fra neuroni in quei luoghi del cervello dove può nascere un inutile e dannoso segnale di allarme».
Senza medicine si guarisce?
«Assolutamente no. Davvero non capisco la diffidenza per gli psicofarmaci. Quando noi neurologi li usiamo per combattere il Parkinson e l’Alzheimer, la gente ci applaude. Ma non appena li adoperiamo a bassi dosaggi per altre malattie, scatta la censura. Ed è la stessa gente che non esita a farsi iniettare la tossina botulinica nel viso per spianare le rughe. Lei ha idea di quanti suicidi vengono impediti con la fluoxetina? Gli Ssri riducono la frequenza, l’entità e la durata degli attacchi di panico e restituiscono al paziente la libertà di movimento, visto che questa patologia porta all’agorafobia».
La paura degli spazi aperti.
«La paura di allontanarsi da luoghi ritenuti sicuri. Ho guarito una donna di Roma che per evitare gli attacchi di panico non usciva più di casa, neppure per fare la spesa: dalla finestra calava con la fune un cestino e i vicini le mettevano dentro i generi di prima necessità».
Ma se fanno tutto i farmaci, lei a che serve?
«Il malato si chiude in un recinto per difendersi dalla paura e dalla fobofobia, che è la paura di aver paura. All’interno di questo recinto ha per compagne la solitudine e, spesso, la depressione. Il mio compito è di spingerlo al più presto fuori dal recinto, con l’aiuto dei farmaci, certo. Invece la psicoanalisi, nonostante si definisca dottrina di liberazione, lo imbottisce di chiacchiere per tenercelo dentro. E si capisce: è un recinto dorato».
Non la seguo.
«Sarò molto chiaro: l’analisi prolungata all’infinito non solo non guarisce ma si traduce in un danno economico enorme. Ho curato pazienti che erano stati costretti a scegliere fra mutuo per la casa e mutuo per lo psicoanalista».
Il neurologo diventa per loro l’ultima spiaggia.
«Può dirlo. Ho curato un camionista che, colto da un attacco di panico sul Grande raccordo anulare di Roma, aveva mollato il Tir in galleria ed era scappato via. Una signora è venuta fin qui dalla Calabria sul camper guidato dal marito: è rimasta sdraiata tutto il viaggio per la paura di svenire. E poi c’è il caso di Attilio il tassinaro, un eremita metropolitano che per 20 anni ha vissuto dentro il suo taxi parcheggiato davanti all’ospedale Umberto I nel terrore di un attacco di panico: voleva essere certo di trovare un rapido soccorso. Mi vide su Raitre, decise che poteva fidarsi di me e chiamò Claudio Marincola, un cronista del Messaggero, supplicandolo di rintracciarmi. Mi sono preso a cuore il suo caso. Ora abita in una casetta, è guarito. Allora chiedo agli psicoanalisti: chi siete voi per influire così pesantemente sulla vita di una persona fino a impedirle di curarsi? Io non ho la pretesa di spingermi ad agire sull’anima, sullo spirito. Il cervello è un organo come tutti gli altri. Le malattie mentali sono come le malattie fisiche».
Le stanno proprio sullo stomaco questi psicoanalisti.
«Purtroppo oggi non esiste più l’intellettuale. Va di moda una sottomarca: l’intellettualoide. Si riconosce dal look: maglioncino esistenzialista, col collo alto; uniforme total black, vestito nero e maglietta girocollo dello stesso colore; camicia bianca alla Robespierre aperta sul petto. Siamo all’adulterio culturale dei valori. L’intellettuale dovrebbe assegnarsi il compito di scuotere le coscienze. Mancano i maestri di vita in grado di liberarci dalla dittatura dell’immagine che dall’11 settembre 2001 investe solo sulla paura, la evoca, la cerca, perché ha capito che è il mastice per tenere incollati agli schermi i telespettatori. Stiamo crescendo una generazione dipendente da immagini negative che producono effetti morbosi sul cervello».
Lei ha studiato gli attentatori suicidi.
«Sì, m’interessavano questi uomini dal cervello senza paura, l’esatto contrario del cervello permeabile agli attacchi di panico. Il terrorismo islamico li recluta fra gli adolescenti, perché l’encefalo in fase di evoluzione biologica ha una plasticità che può essere manipolata con l’indottrinamento, fino a sopprimere in esso la risorsa della paura».
I greci ritenevano che il panikós fosse provocato da un dio, Pan, incombente. Strano che gli attacchi di panico siano tanto diffusi in una società come la nostra che crede poco in Dio.
«Questa società fa emergere solo un vuoto individualismo. L’uomo moderno deve recuperare la sua umanità. Per salvare la nostra anima, dobbiamo occuparci delle altre anime.
(412. Continua)
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