Il sogno di Woody Allen: «Volevo essere un mago»

Silvia Kramar

da New York

In una suite dell’hotel Regency, a Manhattan, Woody Allen si accinge a rispondere alle nostre domande. Educato, gentile e disponibile, a settant’anni non dà segni di stanchezza anche se ormai da tre giorni si sottopone, a ritmo serrato, alle richieste della stampa europea. Scoop, il suo ultimo film in uscita in Italia venerdì, agli americani non è piaciuto: solo i due protagonisti, Hugh Jackman e la bella Scarlett Johansson, sono stati applauditi per le loro interpretazioni. A lui, mitico regista di indimenticabili commedie sulle nevrosi umane, gli americani hanno riservato pochi complimenti. Forse l’eco dello scandalo della sua relazione con la giovanissima Sun Ji, che oggi è sua moglie e con la quale Allen ha adottato due figli, l’ha relegato per sempre nel novero dei registi snobbati. Facendone un po’ un Roman Polanski e un po’ un Charlie Chaplin: talento d’esportazione.
Il rapporto tra gli Usa e Woody Allen è fatto di odio e di amore, di nostalgia e di ripicche. Di certo anche lui snobba gli americani e preferisce vivere sempre più spesso in Europa, a Londra, dove ha girato i suoi due ultimi film, Match Point e Scoop, storia quest’ultima di un serial killer e di una giovane giornalista di Brooklyn, interpretata dalla Johansson.
Il regista ci stringe la mano, delicatamente.
Signor Allen, in questi giorni è stato bombardato di domande... ma se fosse Woody Allen ad intervistarla, lui che la conosce così bene, cosa crede che le chiederebbe?
Sorride e comincia a parlare, guardandoci con gli stessi occhi timidi e curiosi che abbiamo visto in decine di film sulla sua New York ebraica e nevrotica.
«Beh, mi domanderei senz’altro perché butto via il mio tempo a fare dei film divertenti quando potrei farne di seri».
E Woody Allen cosa risponderebbe?
«Che far ridere la gente mi rende ancora felice e che nel cinema c’è posto per tutti i tipi di pellicole. Mi direi che mi piace vedere i film seri e che mi piace fare del cinema di tutti i tipi».
E poi?
«Poi mi direi che sono un regista bizzarro. Che un film come Match Point è un un pasto completo ma che Scoop è come un dolce, un dessert. E mi risponderei che sì, quello del mio alter ego è un commento giusto e acuto, ma che non c’è niente di male e che un dolce, se fatto bene, è molto gustoso. Mi giustificherei dicendo che anche Mozart ha scritto della musica serissima e dei capricci musicali».
Sarebbe soddisfatto delle sue risposte?
«Sì, se a rispondermi fosse un Woody Allen sincero».
Nel suo nuovo film Scarlett Johansson interpreta una giornalista di Brooklyn. Quanto di Brooklyn c’è ancora dentro di lei?
«Ah, moltissimo. È il mio mondo. Quando ho incontrato Scarlett sul set di Match Point ho scoperto che c’è moltissima Brooklyn anche dentro di lei. È una ragazza sveglia, “di strada”, e lo dico nel senso migliore del termine: intelligente, divertente, sembra un personaggio uscito da Bulli e pupe».
Il suo cinema è scandito da figure femminili che rappresentano periodi precisi. Ci sono stati gli anni di Diane Keaton, di Mia Farrow e di Judy Davis. Adesso come li definirebbe gli anni di Scarlett Johansson?
Alza la mano. «Ho girato solo due film con lei. Non è la mia musa. In questi giorni sto finendo di montare la mia ultima pellicola, Cassandra’s Dream, e non l’ho messa nel cast. Detto questo, probabilmente la richiederò ancora. Non è facile trovare attori di così grande talento».
Quando l’ha scoperta?
«Nel film Ghost World, che mi era piaciuto. La rividi poi nel film di Sofia Coppola, Lost in Traslation e anche lì rimasi colpito dalla sua recitazione. Ero intenzionato a girare Match Point con Kate Winslet, ma una settimana prima delle riprese mi comunicò la sua rinuncia. Qualcuno mi suggerì Scarlett, ma io d’impatto risposi che era troppo giovane. Aveva solo diciannove anni. Mi dovetti ricredere perché è una professionista nata. Quando scese dall’aereo, dopo aver trascorso tutta la notte in volo da Los Angeles e l’autista la portò direttamente sul set non fece una piega. Si fece vestire e truccare e arrivò sul set. Fu bravissima. Se fossi stato io, mi avrebbero portato in barella...».
Woody Allen adesso snobba l’America?
«No, ma Hollywood non mi concede certe libertà, obbligandomi per esempio a rivelare le mie sceneggiature. A me invece piace lavorare in segreto. Gli europei mi finanziano e non fanno domande».
Dove si sente più felice?
«Dove non sono. Se sono a New York penso che sarei più felice a Parigi, se sono a Londra voglio tornare a Manhattan. Sono sempre stato così».
Cosa le manca di più della sua New York?
Sorride malizioso. «I miei medici. Ho uno specialista per ogni parte del mio corpo. Se appena appena mi viene una vescica, faccio le radiografie e mille esami. Sono un enorme fifone».
E Hollywood? Nel suo Scoop lei interpreta un mago, il Grande Santini. Secondo lei c’è ancora abbastanza magia nei film made in the Usa?
«No. Proprio no. Da ragazzo volevo fare il mago. Mi piacevano gli anelli d’argento, i fazzoletti di seta, e ho sempre usato la magia nei miei film. In La rosa purpurea del Cairo ho immaginato una ragazza che vola via dallo schermo argentato. Per me c’è una profonda connessione tra magia e cinema, entrambi mondi di illusioni e trucchi. Se il mago fa levitare le sue aiutanti, il regista ti convince che sullo schermo gli attori rischiano la vita. E tu ci credi anche se sono solo illusioni».
Insomma il cinema americano oggi proprio non le piace?
«Credo che siano film stupidi, che miglioreranno per un semplice motivo: perché hanno già toccato il fondo. Dirò di più. Sono film stupidi girati per un pubblico ben poco intelligente. Se andiamo a rivedere l’entertainment popolare di una volta troviamo delle commediole divertenti ma piene zeppe di charme.

Oggi i film di puro entertainment sono proprio stupidi. Le commedie di Katharine Hepburn e Spencer Tracy, le battute di Fred Astaire erano anch’esse superficiali, a volte ridicole, ma la Hollywood di oggi la magia se l’è proprio dimenticata».
Silvia Kramar

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