Cultura e Spettacoli

Una sola croce per partigiani e repubblichini

Nel Savonese, dove la guerra civile fu più spietata, il generale Farina della Divisione San Marco della Rsi volle dare la stessa sepoltura ai caduti di entrambe le parti

Altare (Savona)
Racconta l’orafo di Altare, nella sua bottega dove lavora le pietre dure nel centro del vecchio borgo, che quando era ragazzo suo padre lo portava di tanto in tanto al Cimitero delle Croci Bianche. Gli mostrava una tomba, uguale a tutte le altre ma che dalle altre si distingueva perché qualcuno vi aveva depositato dei pupazzetti e alcune conchiglie. «Era la tomba di un soldato tedesco giovanissimo e sua madre, quando lo veniva a trovare, portava qualcosa appartenente all’infanzia di questo suo figlio, partito per la guerra ancora adolescente».
Andò avanti così per un po’, negli anni del dopoguerra, poi nessuno portò più pupazzetti perché la madre aveva raggiunto il figlio. I soldati tedeschi caduti nel Savonese tra il 1943 e il 1945 non sono più nel cimitero di Altare, ne è rimasto solo uno, Josef Henk Odereit, nato il 9 novembre 1924 e morto l’8 agosto 1944. I vent’anni non li aveva ancora compiuti, forse è lui il soldato dei pupazzetti.
Incuneato fra il cimitero civile del paese e lo svincolo dell’autostrada Savona-Torino, il cimitero militare di Altare è in effetti un sepolcreto di ragazzi: circa 1500 candide croci di marmo, dove le date di nascita vanno per lo più dal 1923 al 1925. Sull’autostrada i Tir fanno tremare i piloni del viadotto senza che i merli e le lucertole del cimitero ne siano minimamente disturbati. Non zittisce gli uccelli neppure il ronzare del tosaerba con cui un uomo sistema il prato in vista della cerimonia del 25 aprile, quando come ogni anno, i reduci dell’Associazione Divisione di Fanteria Marina San Marco verranno a celebrare la messa nel giorno dell’apostolo loro protettore e suoneranno il silenzio fuori ordinanza e il sindaco di Altare, come ogni anno, manderà magnanimamente una corona per i «fascisti» della San Marco. Ogni anno qualcuno manca alla cerimonia e viene ricordato dai superstiti insieme ai commilitoni caduti.
C’è qualcosa che distingue questo cimitero dagli altri cimiteri militari sparsi nella penisola ed è il fatto che le Croci Bianche non sarebbero dovute esistere e i fanti della San Marco caduti in combattimento o negli agguati partigiani avrebbero dovuto giacere, chissà per quanto tempo, in fosse comuni, se non fosse stato per il generale Amilcare Farina, un bresciano d’acciaio, militare fino alle midolla, uno per il quale «i soldati venivano prima della sua stessa famiglia», come ricorda ancora oggi la figlia Giulia. Combattente nella prima guerra mondiale e nella guerra di Spagna, pluridecorato, il generale Farina assunse il comando della Divisione San Marco, rientrata dall’addestramento in Germania e di stanza in Liguria tra Savona e Imperia, il 5 settembre 1944. La situazione volgeva al peggio e il morale della truppa era basso. Ne troviamo traccia nel diario del generale che si domanda se riuscirà a rincuorare i marò, «prigionieri di una incomprensione dolorosa». Ma è soprattutto un episodio a colpire Farina: la sepoltura di un soldato tedesco, calato in una fossa anonima, in terreno sconsacrato «dove un tempo si seppellivano eretici, esecutati e scomunicati». Farina è sdegnato: per un militare di carriera e di tradizione familiare come lui, il fatto che a un caduto non venga tributato l’onore dovuto è inconcepibile ma i suoi appelli al parroco e al podestà di Altare cadono nel vuoto. Con tutti i civili che la guerra miete, gli rispondono, nel cimitero non c’è più posto neanche per quelli del paese.
La testa dura del generale Farina non ci pensa ad arrendersi: «I caduti, tutti - scrive nel suo diario -, avranno da me una sepoltura e una fossa da soldati e in un campo da cristiani». Nemmeno dieci giorni dopo la sua nomina a comandante, il 15 settembre 1944, il cimitero della Divisione San Marco sta sorgendo accando al cimitero civile di Altare: quattro pali fungono da ingresso, due pezzi di legno formano la croce sopra l’architrave, le croci sopra le tombe vengono dipinte di bianco. Il generale Farina raccoglie alacremente le salme, esumandole dalle fosse anonime, dando a tutte, fin dove è possibile, un nome e una croce. Diverse autorità militari e civili della Rsi storcono il naso, soprattutto perché Farina dà sepoltura a tutti i caduti indistintamente, «tutti» come aveva scritto a lettere maiuscole nel diario: il cimitero accoglie i marò, accoglie i disertori fucilati, accoglie due aviatori americani abbattuti con il loro aereo, accoglie i partigiani.
La guerra civile nel Savonese è spietata, ad ogni agguato contro militari tedeschi e repubblicani seguono rastrellamenti e fucilazioni, l’odio scava solchi profondi. Farina è sempre più solo con le sue Croci Bianche che troppi vorrebbero smantellare, lui si appella a Graziani, il maresciallo lo conforta: «Vada avanti così».
La situazione precipita, l’avanzata angloamericana è inarrestabile, lo stillicidio degli agguati partigiani non cessa. Farina pensa al dopo, quando il suo paese ritroverà l’unità e la pace simboleggiate dalle Croci Bianche dove ancora oggi il nome del partigiano Bettini Giovanni si legge accanto a quello del marò La Giurato Carmine, quello del partigiano Giorgi Ercole accanto a quello dell’ardito Leonardo Andrea. «Il mio battaglione delle Croci Bianche - scrive Farina nel diario negli ultimi giorni di guerra - resta a presidio morale nel tempo della San Marco. Così qui resta e resterà la mia San Marco che con me ha sempre e solo gridato: Italia, Italia, Italia».
Illusioni? La Divisione San Marco si arrende ad Alessandria il 29 aprile, ma per circostanze ancora oggi non del tutto chiare, il generale Farina cade in mano a un gruppo di partigiani che lo picchiano selvaggiamente, procurandogli la frattura di una tempia. Dovrà la salvezza agli americani della 92ª Divisione Buffalo che lo ricovereranno a Genova in infermeria. In seguito sarà trasferito al carcere militare di Forte Boccea a Roma. In Liguria, come in tutto il nord del Paese, infuriano le «radiose giornate» della Liberazione. Il 1° maggio a Varazze i «garibaldini» prelevano da una villa dieci militari e fascisti prigionieri e li fucilano in piazza per festeggiare la giornata dei lavoratori. Sono l’anziano generale Ulderico Nassi, di 75 anni, sua moglie Luigia Bregante, l’interprete quarantenne Maria Zorzin, Cesare Raffaeli di 25 anni, i due sottufficiali del 3° reggimento artiglieri della San Marco Arturo Vitali e Graziano Cristello, il maggiore Giovanni Italia, il milite Giacomo Capello, il comandante delle Brigate Nere di Varazze Felice Uboldi. E Adriano Griotti, un ragazzo che ha soltanto diciassette anni.
Cinque di loro sono sepolti ad Altare, dove un’altra lunga serie di croci porta la scritta «morto a Cadibona il 12 maggio 1945». Sono le sepolture di 39 soldati della Gnr che, arresisi con la San Marco ad Alessandria, tornavano disarmati a casa. Circondati e catturati dai partigiani al Colle di Cadibona, vennero tutti denudati, fucilati e abbandonati in un macabro mucchio ai lati della strada. Solo dopo parecchio tempo i familiari riuscirono a riavere i cadaveri.

Sono soltanto alcuni dei 1700 che vennero uccisi nella provincia di Savona fra il 25 aprile e il 15 maggio 1945.

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