Nei primi anni Settanta fecero il giro delle redazioni di tutti i giornali (anche se avrebbero dovuto farlo dei manicomi: ma in quegli anni i manicomi li chiudevano) le motivazioni di una sentenza con la quale un giudice mandò assolto un giovane autore di una serie di rapine. «Il ragazzo - disse il presidente del tribunale - era sconvolto per le notizie che arrivavano dalla guerra del Vietnam. Egli non è dunque responsabile. Responsabile è la società».
L’episodio, che suscitò l’indignazione e l’ilarità di Indro Montanelli, torna alla mente ora che una preside di Treviso incolpa «la società» della bravata di una sua studentessa dodicenne. La ragazzina vendeva autoscatti osé per finanziarsi lo shopping. La preside, e via a ruota tutta una serie di «interpreti del disagio» in servizio effettivo e permanente, hanno accusato in serie prima la famiglia che non educa più, quindi il mondo della moda, poi quello dei telefonini, infine l’immancabile televisione.
Ora è senz’altro vero che la società di oggi ci offre molti spunti per autoassolverci ogni volta che facciamo qualche fesseria. Tuttavia nel terzo episodio del film Signore e signori di Pietro Germi - che è ambientato proprio a Treviso ma nel 1966, quando non c’erano i telefonini e in tv si vedeva a stento il canale nazionale - la contadinella Alda, una ragazzina di quindici anni, si concede in serie a tutti i vitelloni della città, gente dai quarant’anni in su, per comprarsi scarpe e vestiti. Verrebbe da dire insomma che le fragilità umane non sono poi tanto cambiate, e che la tecnica e la maggior disponibilità di mezzi hanno solo aumentato la quantità, e non la natura, dei misfatti.
Ma la banalità dell’analisi sui tempi che cambiano è comunque meno grave dell’eterno ritorno dell’impalpabile «società» quale unica presenza sul banco degli imputati.
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