Una solitudine molto americana

Una solitudine molto americana

«Se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe nessuna ragione per dipingerlo». L’uso superlativo del pennello gli permise invece di realizzare dei magnifici quadri che da sempre raccontano l’America, e che ora sono in mostra a Roma. Stiamo parlando di Edward Hopper. Dopo un clamoroso successo di pubblico e di critica a Milano, la monografica sull’artista americano approda oggi nelle sale del Museo Fondazione Roma. La mostra se possibile, è resa ancora più autorevole da capolavori non presenti in quella di Milano, ed è arricchita da un allestimento che renderà gli spettatori «attori» delle tele di Hopper. Personaggio schivo, l’artista condusse una vita quasi in solitudine con la moglie, pur dedicandosi con passione al teatro, al cinema. Poche parole anche con i conoscenti, con gli amici, non aveva tempo da sprecare, doveva assolutamente dipingere. Fino all’età di 41 anni, nonostante i tanti viaggi per l’Europa e i riconoscimenti importanti, dovette mantenersi facendo l’illustratore. Una volta affermato, però, dedicò tutta la sua vita a «fotografare» il quotidiano.
Hopper rappresenta l’America del XX secolo, quell'America lontana dal sogno americano, un’America pragmatica, reale, ma anche intima, che non ha bisgono di urlare per farsi riconoscere, l’America delle cittadine, dei tanti uomini e delle tante donne che sostengono il paese da sempre. Questo è ciò che raccontano i suoi quadri, semplicemente uno spaccato di vita, di momenti anche di consapevole solitudine ma allo stesso tempo quotidiani, simili e quindi condivisibili. La solitudine è presente anche là dove le figure latitano, una nostalgica visione di luoghi che sembrano abbandonati dall’uomo, come in Macomb's Dam Bridge, o in Cape Cod Sunset, Seven am, o ancora in Stairway at 48 rue de Lille.
Poco incline a raccontare il movimento, fissa invece nei suoi quadri le facciate delle case, che mutano grazie alla luce. Ed è proprio la luce l'elemento che più di tutti lo attrae, quella luce che che illumina una stanza o ne lascia una parte nell'oscurità. Una luce che Hopper utilizza sempre, con la quale si trova ormai a proprio agio, che lo rassicura. In mostra la possiamo vedere espressa in molti modi e in molti quadri, come per esempio nell'olio dal titolo New York Interior, del 1921; nell’opera è evidente il passaggio da un momento buio a una luce che indugia sulla figura della donna di spalle, sui suoi capelli, sulla sua schiena nuda.

O ancora in Morning sun, quadro del 1952, dove la protagonista è di nuovo una donna, questa volta rappresentata in un momento di stasi, forse di riflessione, avvolta da un gioco d'ombre e di luci che creano ideali tagli verticali e orizzontali sulla tela stessa.

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