Se Massimo D’Alema con tanta passione torna al suo leit motiv, «parlare con Hamas», proprio nel momento in cui si scoprono le carte della campagna elettorale, evidentemente ritiene che ci sia una porzione di opinione pubblica che viene attratta, eccitata, convinta da questo suo punto di vista. Peccato per lui, e fortuna per l’Italia, che compia due sbagli importanti, uno conoscitivo e l’altro morale. Gli italiani sanno e sentono, e anche molti del partito del ministro degli Esteri si sentono a disagio perché conoscono la determinazione omicida e religiosa di Hamas. Magari non avranno letto per intero la Carta costitutiva di questa organizzazione estremista islamica, ma più o meno ne conoscono il contenuto: promette la distruzione dell’entità sionista, che non merita neppure il nome di Israele, assicura la cacciata degli infedeli dal Medio Oriente e la vittoria mondiale dell’Islam, chiede alle pietre e ai cespugli di avvisare il credente islamico se per caso dietro di loro si nasconda un ebreo, per poterlo uccidere. Perché gli ebrei, come ripete spesso Hamas nella sua propaganda, sono «figli di porci e di scimmie».
L’italiano medio sa che Gaza nel 2006 fu lasciata nelle mani dei palestinesi per diventare un primo abbozzo di Stato palestinese indipendente, e per questo gran parte delle infrastrutture economiche furono consegnate ai nuovi padroni. Sui valichi per Israele fu stabilita una gestione internazionale. Ma Hamas vinse le elezioni e impedì lo sviluppo di qualsiasi speranza: distrusse subito le infrastrutture lasciate in piedi, ignorò lo sviluppo economico dello Stato palestinese - che vuole al posto di Israele e non accanto a esso - dichiarò che la democrazia è anatema, e instaurò un regime autoritario, torturatore e assassino, inclemente con i musulmani dissidenti così come con i cristiani. Un regime che si serve di sicari, un regime che rapisce, che vessa innanzitutto la propria popolazione a Gaza e che ha violato, nel territorio che governa, tutti i diritti umani.
Pensa forse D’Alema che gli italiani non siano sensibili a questi temi? Che non sappiano vedere dove cercare la pace e dove risiede la guerra? In secondo luogo, l’italiano medio sa che mentre Abu Mazen cercava di cambiare il clima dopo la morte di Arafat e dell’Intifada del terrore, Hamas lo ha cacciato da Gaza cannoneggiando ospedali e case, uccidendo per strada a freddo donne e bambini. Hamas è nemico di Abu Mazen. Dopo aver fatto fuori Fatah, ha fatto di Gaza una rampa di lancio di missili e ha preso a cannoneggiare la gente di Israele, usando la propria popolazione come scudo umano. Come mi ha raccontato chi ha partecipato personalmente alla battaglia, la ferocia e il tradimento hanno battuto le milizie di Abu Mazen. Dunque, quando D’Alema ricorda, quasi porgendo a chi lo ascolta un talismano, la vittoria elettorale di Hamas, è un trucco concettuale per attribuirgli un connotato democratico. Ma Hamas non ha mai creduto nella democrazia ma nella violenza, e ha usato le elezioni per instaurare una dittatura. Il movimento islamico non riconoscerà mai Israele, non cercherà mai la pace: non è un interlocutore. Ma qui viene un altro punto fondamentale: perché, invece, tramite l’Egitto Hamas cerca in questi giorni un’hudna, una tregua che le consenta di prendere fiato dopo aver subito molte perdite, o di far entrare armi e uomini addestrati in Siria e in Iran per rimpiazzare le perdite. E anche Israele desidera certo far rifiatare la popolazione di Sderot e di Ashkelon. Ma questo non c’entra con “parlare” con Hamas; questo non trasformerà il ranocchio in principe azzurro. Non lo legittimerà come invece sembra desiderare D’Alema. La legittimazione può invece fare il gioco di una organizzazione terroristica che ha capito quanto sia utile mettere la fede al servizio di una strategia che parte dall’Iran, dalla rivincita islamica sull’Occidente.
Fiamma Nirenstein
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