Solo Moresco può salvarci dallo sconforto

Esce Gli incendiati, vulcanico romanzo d’amore con imprevedibile spy story dell’autore mantovano Che crede nella parola, non si contempla l’ombelico, non cede al nichilismo: è un caso unico in Italia

Solo Moresco può salvarci dallo sconforto

I mmaginate un Via col vento girato da Quentin Tarantino e sceneggiato da Franz Kafka con un finale subappaltato a Stephen King che si intitola Gli incendiati, nel quale più che con il vento si comincia e si finisce con il fuoco, da un albergo in fiamme da cui fuggire ai due amanti che si cospargono di benzina per non essere uccisi, benché già morti. Insomma, sorpresa, chi se l’aspettava: è uscito un nuovo libro di Antonio Moresco, dopo il gran ritiro annunciato. «Mi era rimasto un canto in canna», mi scrive nella dedica del volume che mi arriva con un pony mondadoriano, e non sentendo Moresco da un anno trovo la dedica rassicurante, per fortuna non è il libro postumo annunciato.

La trama non ve la racconto, non per dispetto o per farvi un favore ma per evitare di banalizzarla (come accade in genere ai grandi libri non di genere, cioè: come raccontare la storia, ad esempio, di Ferdydurke di Gombrowicz?). La trama non ve la racconto perché è semplicissima e simile all’amore e alla passione tra due corpi. Come scrive Moresco, congiungendo la fisica emotiva dei corpi alla fisica quantistica: «Come si fa a descrivere quello che può avvenire certe rare, rarissime volte, tra due volti e due corpi che si incontrano nel mare della materia degli altri corpi, quello che avviene quando due particelle dotate di carica opposta si attraggono e poi si distruggono trasformandosi in radiazione?». Si potrebbero dire mille cose e nessuna, tra le tante e sommarie, per esempio, che si tratta di un romanzo d’amore visionario come solo Moresco poteva concepirlo e scagliarlo nelle librerie italiane. Un libro tenero e violento, invasato e invadente, che si trasforma sotto gli occhi del lettore in una spy-story con tanto di sparatorie e inseguimenti mentre i fantastici amanti fuggono dai cattivi. Si inizia con un uomo, il protagonista, che incontra una ragazza dai denti d’oro, una «schiava», e si finisce, tra una scopata e l’altra, con i due protagonisti morti che combattono a Sarajevo contro i soldati vivi che una volta morti combattono al loro fianco ammenoché non siano riuccisi e morti due volte, perché in quel caso tenteranno di uccidere i morti uccisi una sola volta...
Questo in sintesi, poi volendo è ancora più complicata, e il serial Fringe in confronto sembra un film neorealista. Invece artisticamente parlando non è un altro canto in canna, bensì la congiunzione di due pianeti nell’orbita di Moresco. Si confronti a proposito la claustrofobia e l’estraneità di una coppia di amanti racchiusa nel suo primo romanzo, La cipolla, con Gli incendiati: sarà come vedere la durezza di un sasso scagliato nello spazio trasformarsi, nel tempo, di opera in opera, in una meteora infuocata, sfrenata, irrefrenabile, la risalita fino al cosmo, con al centro la Supernova dei Canti del Caos.

Anche qui, come la storia di Principessa nella prima parte di Canti del caos, c’è la schiava e c’è lo schiavista, il dominatore e il dominato, il pappone e la puttana, e dunque il potere e chi lo subisce. Eppure, è proprio nella villa del cacciatore di schiavi, infimo rappresentante del genere umano, proprio nelle sue parole che si trova il dramma e la verità della condizione umana (e anche degli altri animali non umani). «Tutto il mondo, tutta la vita, sta in piedi perché c'è la schiavitù» in un universo dove «la vita è schiava della morte, la morte della vita, le donne sono schiave degli uomini e gli uomini delle donne, il cervello è schiavo del cuore che pompa il sangue e il cuore del cervello, l’intestino è schiavo dello stomaco e lo stomaco dell’intestino». E «senza schiavitù non esisterebbe la vita, non esisterebbero i sistemi politici, economici, religiosi, culturali».

È ciò che penso ogni settimana quando vado al Bioparco di Roma a scambiarmi darwiniani sguardi di fratellanza con gli scimpanzé: mentre gli altri dicono «poverini», io li guardo e li invidio, vorrei essere lì, al di là del vetro, perché ambisco a una prigionia più perfetta, a una schiavitù più sopportabile; alla libertà di una gabbia vera al posto della prigionia di una libertà finta. Perché «poi anche la libertà è schiava della schiavitù, e la schiavitù della libertà».

E sì che, tra visioni del mondo e della materia, io e Moresco non ci siamo mai trovati d’accordo su un punto, uno snodo minimo, quasi invisibile, ma fondamentale, biologico. Perfino in un libro-colloquio scritto insieme ci siamo incartati, sembrava una gara a chi era più pessimista ma sotto c’era altro. Per me Moresco ha sempre avuto un punto debole di spiritualismo, di speranza metafisica nascosta nel brulicare della materia dei suoi capolavori (paradossalmente incompresa dai detrattori che lo vedono come uno scrittore «nichilista»). In lui c’è un rumore di fondo consolatorio simile alla «meraviglia» per il «creato» di molti religiosi.

E infatti questo romanzo incandescente dove gli amanti si incendiano l’uno nell’altro termina con lo sguardo rivolto alle stelle; e salta fuori, lì nel mezzo del caos cosmico della «vitamorte», in risposta alla domanda su dove siano finiti i due amanti, perfino un «chi può dire?». La tragedia si dissolve in un’esplosione di fuoco e oro, e alla fine si potrà sempre dire che la vita è un mistero, che è funesto a chi nasce il dì natale e comunque, insomma, «chi può dire», signora mia.
Non è vero, quindi, che Moresco è «irredento» perché è redimibile e dal suo caos terribile vi tende la mano.

Io ve la taglierei se non mi fossi già tagliato le mie prima, e quindi io resto qui, a chiudere porte metafisiche e a non rendere girevoli quelle fisiche, e però intanto, stelle o non stelle, leggo Moresco e ne resto abbagliato, perché appunto è un Moresco, il romanzo di un genio, mica di un Veltroni.

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