Roma - Il pressing insistente che ieri è partito dal centrosinistra verso la Cdl fa capire quanto la maggioranza sia incerta sulle sorti del voto di martedì. Quando il Senato si dovrà pronunciare sul decreto che rifinanzia la missione in Afghanistan.
A Palazzo Chigi e negli stati maggiori dell’Unione si respirano incertezze, timori, sospetti. La paura di un «trappolone», di un incidente fatale, addirittura l’incubo di un grande «complotto» ispirato d’oltreoceano per far cadere Prodi, dopo il drammatico strappo con gli Usa sul caso Mastrogiacomo. Certo, alimentare le voci di complotto amerikano serve anche a compattare la sinistra della coalizione attorno al governo, facendogli digerire il boccone amarissimo ma ormai quasi inevitabile di un «cambio di passo» della missione afghana,in direzione opposta a quella chiesta dai pacifisti: più armi, diverse regole d’ingaggio, disponibilità a combattere la guerra reale.
Sta di fatto che ieri si sono moltiplicate le voci che stigmatizzavano un eventuale voto contrario di Forza Italia, Lega e An: un vero coro greco. «Non posso pensare che il centrodestra possa votare perché i soldati tornino a casa», annuncia Francesco Rutelli. Clemente Mastella avverte: «Sarebbe un grave errore, un atteggiamento irresponsabile: se Berlusconi pensasse di dare una spallata al governo con il voto contrario farebbe un atto senza giustificazione». Piero Fassino cerca toni più concilianti: «Sono certo che il decreto passerà, votare sì non è fare un favore al centrosinistra: bisogna votarlo perché è giusto». Il verde Pecoraro Scanio grida alle «meschinità strumentali».
Su quale sarà il comportamento dell’opposizione non c’è alcuna certezza, insomma. «Ma l’Udc ha garantito il suo voto», mette le mani avanti Fassino. Dietro le quinte però ci si interroga: «Casini ha le palle per affrontare il rischio di essere determinante per la sopravvivenza di Prodi e lo strappo definitivo con la Cdl, se quelli decideranno di non votare?», si chiede un autorevole senatore di maggioranza. A Palazzo Madama si fanno e rifanno i conti: posto che il decreto passi, con i senatori a vita, tranne Cossiga, a compensare i dissidenti della sinistra (al momento se ne calcolano tre: Turigliatto, Rossi e Bulgarelli, con un’incertezza su Giannini), resta il rebus degli ordini del giorno. La capogruppo dell’Ulivo Anna Finocchiaro sta sondando uno per uno i suoi parlamentari: è da lì, da quella che viene definita «la falange atlantica» dei Dini, Manzella, Maccanico, Polito, Follini eccetera che si teme arrivino i problemi. La parola d’ordine è «evitare il casino che successe su Vicenza». Il rischio cioè che la maggioranza si frantumi, e che corra il rischio di veder bocciato un suo documento e approvato quello dell’opposizione, grazie ai voti atlantisti dell’Unione. Per questo ci sono moltissimi dubbi sull’opportunità di presentare in aula l’ordine del giorno di Rifondazione che il centrosinistra ha votato compatto in commissione, e che sollecita la conferenza di pace. «Certo se non ci mettiamo le cazzate di Fassino sui talebani lo può votare anche l’Udc, ma meglio non rischiare», dicono in casa Ds. In compenso si teme la spaccatura dell’Ulivo su eventuali documenti Cdl per rafforzare la missione. L’Udc promette di presentarne uno che «spacchi la maggioranza», ma sono in corso contatti per ammorbidirlo il più possibile. Tanto che Fassino già apre: «Se fosse condivisibile un ordine del giorno Cdl non vedo difficoltà a votarlo, siamo interessati alla sicurezza ed efficienza delle missioni». E l’Udeur, con Fabris, si dichiara «pronto a votare». E se il testo sarà «soft», Rifondazione è disposta a non fare barricate a un pronunciamento favorevole dell’Ulivo, o dello stesso governo.
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