Soltanto la speranza tiene in vita Sharon

L’ultimo intervento è durato quattro ore, adesso è una macchina che gli consente di respirare. Il direttore della clinica: «Operarlo è stato un atto eroico. In quelle condizioni non ci si prova nemmeno». Gli anticoagulanti responsabili dell’ictus

Luciano Gulli

nostro inviato a Gerusalemme

Le due bandiere appaiate, l’israeliana e l’americana, sbattono nel vento che spazzola il colmo della collina su cui è appollaiato l’ospedale Hadassah. Le bandiere, simbolo di un’alleanza di ferro che trascende gli uomini, i leader e le amministrazioni, transeunti per definizione, sventolano davanti al modernissimo reparto pediatrico realizzato grazie alla munificenza di una famiglia ebreo-americana: quella di Charlotte Bloomberg. L’«emergency room» una tozza palazzina di mattoncini rossi tirata su quando Israele era un Paese sobrio, che mirava all’essenziale e schifava i lussi e il superfluo, è qui di fronte. Stride, il contrasto.
Ariel Sharon, il vecchio comandante, è lassù, in una stanzetta all’ultimo piano, appeso tra la vita e la morte. In mezzo, tolto il centinaio di giornalisti, operatori e fotografi che hanno eretto qui il loro bivacco, non c’è nessuno. Non un parente che chieda il passo, non un portaborse, un iscritto al partito, un fan, un vecchio compagno d’armi, un rabbino che dica una preghiera. Nessuno che versi una lacrima.
«Non si aspetti di vedere tante facce afflitte – sorride tetro il vecchio oculista di origine polacca che attraversa lo slargo, diretto al suo reparto -. Sharon era un uomo rispettato, temuto, anche apprezzato. Ma amato, questo no».
Dice «era», il dottor Wolkinski. «Era» dicono gli stessi neurochirurghi (se non ci sono telecamere e microfoni in vista) che ieri mattina sono tornati ad affannarsi intorno al corpaccione venuto nuovamente ad arenarsi su un tavolo operatorio. Una risonanza magnetica che doveva essere di routine, dopo l’intervento di mercoledì notte, rivela una intollerabile pressione intracranica. C’è una nuova emorragia in atto. «Drenaggio d’urgenza» urla qualcuno uscendo a razzo dal reparto di rianimazione. Lo staff di neurochirurghi cui è affidata la vita di Sharon entra in fibrillazione, come soldati di Tsahal che scattano dalla trincea. Non c’è un minuto da perdere, bisogna operare di nuovo. La sala operatoria è pronta. Maschere, guanti, luci, ferristi, anestesista, rianimatore. Tutti sono al loro posto. Si comincia. Cioè: si ricomincia.
Quattro ore dopo è tutto finito. Ariel Sharon esce dalla sala operatoria immerso in una sorta di limbo farmacologico, respira attaccato a una macchina. È vivo, ma è come se fosse già morto. «La prima operazione era già stata una sorta di atto eroico da parte dei chirurghi», spiega paziente, ma come mettendo un po’ le mani avanti, il direttore dell’ospedale Shlomo Mor-Yosef. Nel senso? «Nel senso che chi è nelle condizioni in cui era il primo ministro mercoledì notte non viene neppure operato, in genere».
E ora, dopo quest’altro intervento? Mor-Yosef si stringe nelle spalle. «Nessuno lo sa. Nessuno, in questo momento, può dirlo». Coma indotto, si chiama. «E prima di domenica - aggiunge il vice direttore dell’ospedale, il dottor Shmuel Shapira - non cercheremo neppure di risvegliarlo. L’obiettivo della sedazione è quello di ridurre al minimo il consumo di ossigeno da parte del cervello e consentirgli di riposare. Solo quando uscirà dal coma indotto, il che potrebbe avvenire anche dopo la giornata di domenica, potremo tracciare un primo bilancio sulle sue capacità motorie e sui danni cognitivi». Il più ottimista è il chirurgo che l’ha operato il dottor Felix Umansky. Sorride: «Ci sono ancora speranze».
Bugie. Pietose bugie, mormorano nei corridoi dell’ospedale. Pietose, ma necessarie. La verità, dicono le voci che in serata circolano insistenti, è che Sharon è tecnicamente morto. Ma quand’anche dovesse sopravvivere, per miracolo, a questa terza operazione in una manciata di giorni, sarà ridotto a una vita vegetativa. E questo non si può dire. Non ancora. Si terrà nascosta la notizia per un paio di giorni, il tempo di far uscire il Paese dallo shabbat in cui è sprofondato al tramonto di venerdì. Il trauma, ora che il Paese è ripiegato su se stesso, e le sue stesse funzioni vitali sono ridotte al minimo, come quelle del suo vecchio comandante, sarebbe troppo forte. Incalcolabili le ripercussioni, il disorientamento, lo shock politico.
L’emorragia cerebrale, quella per cui fu operato la prima volta mercoledì, fu indotta probabilmente dall’eparina e dagli altri anticoagulanti somministratigli dopo l’ictus. E quando si scatena un’emorragia, in un paziente con questo quadro clinico, gli esiti sono quasi sempre mortali. Di qui le 9 ore di intervento, quel disperato tentativo di tamponare, cauterizzare, limitare i danni. Poi, ieri mattina, ancora. «Diciamo così – sintetizza il dottor Avi Cohen, direttore del reparto neurochirurgico del Soroka Medical Center -: che non è corretto farsi illusioni su una capacità di ripresa del paziente».
Ci si domanda, non senza una punta polemica, se sia stato giusto trasferire Sharon in ospedale su un’ambulanza, invece che in elicottero.

Ma il dottor Itzhak Fried, neurochirurgo con cattedra in California, taglia corto. «Meglio l’ambulanza, se è dietro la porta e pronta a partire. Ma 10 o 20 minuti di differenza, di fronte a un’emorragia di queste proporzioni, non cambiano il quadro della situazione».

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