Sono diventato grande remando verso il castello

Piero Chiara ricorda l'adolescenza passata avventurandosi fra le rovine dei forti di Cannero, regno romantico da briganti

Sono diventato grande remando verso il castello

Il Lago Maggiore ha tre arcipelaghi, o meglio tre sistemi di minuscole isole e in più un solitario isolotto di fianco al borgo di Angera: l'Arcipelago Borromeo, quello antistante a Brissago nelle acque svizzere, l'Arcipelago Malpaga e l'isolotto Crivelli. A Luino, in località San Bernardino, dove oramai giunge il terrapieno della passeggiata a lago che fronteggia il parco di Villa Fonteviva, sporge dalle acque, con maggiore evidenza nei periodi di secca, uno scoglio oblungo non segnato sulle carte geografiche. È il «Sasùn» o Sassone. Vi possono sedere, un po' scomode, non più di tre persone accostate, ma è la prima immagine di isola che sia apparsa ai miei occhi quando, fanciullo, traversando dalla riva con l'acqua a mezza gamba, salivo su quel masso e ne prendevo possesso.

Di fronte al «Sasùn», sulla sponda opposta, sorge dalle acque l'Arcipelago Malpaga, del quale dovevo prendere conoscenza molti anni più tardi, appena adolescente.

Informato della sua esistenza, ma non potendolo distinguere a quattro chilometri di distanza e contro lo sfondo della riva opposta, andai a riconoscerlo solo all'età di quindici anni, con la barca a remi «Iride», noleggiata dal barcaiolo Lanella. L'Arcipelago consisteva in tre masse emergenti, delle quali la maggiore era interamente occupata da un grande castello innalzato sopra una base irta di scogli verso la sponda lombarda, ma ingentilita da una piccola spiaggia verso quella piemontese. Tra quest'isola e la vicina sponda piemontese, sorgeva un altro castello, sopra un'isola più piccola che protendeva una lingua di roccia verso la maggiore, coperta nella parte declive da un verde prato. Verso Luino, a poca distanza dal castello principale, usciva dalle acque il terzo elemento dell'arcipelago, un nero masso, squadrato ad angolo come un cuneo di parmigiano e fiorito di pochi cespugli.

Mi aggirai con la barca tra un castello e l'altro, poi intorno alle alte muraglie. Qualche nero uccello abitava le cimase, ma nessun vestigio umano era possibile scorgere, oltre un portoncino chiuso, dalla cui toppa, larga due dita, potei guardare nell'interno.

Si vedevano archi, volte nereggianti d'ombra, scale sbrecciate, finestre senza imposte, frammenti di marmo lavorato caduti dall'alto e giacenti tra l'erba che aveva invaso i cortili. Cespugli, rovi, edere e perfino un roseto rampicante, invadevano ogni spazio e pendevano a festoni dai muri cadenti.

Seppi presto che i Castelli, detti di Cannero, erano stati costruiti la prima volta nel XVI secolo da tre o quattro fratelli di Ronco presso Brissago, detti Mazzardit in quanto figli di un Mazzardi, feroci briganti che tenevano in soggezione tutti i paesi del lago e certamente anche il mio. Distrutti dalle milizie viscontee che ne avevano snidato i banditi, erano stati riedificati più di un secolo dopo come opera di difesa verso gli svizzeri, dai Borromei, diventati padroni del lago. Dopo aver subito un assedio, mai più attaccati da alcuna truppa, i Castelli erano andati lentamente in rovina, fermandosi, come materia, al punto giusto in cui una costruzione, incoronata dai secoli, può entrare nel catalogo delle immagini romantiche. Dall'età di quindici anni divenni, e sono rimasto, un visitatore e quasi un ispettore dei Castelli, con le diverse barche che ho posseduto.

Le due donne, madre e figlia, che esercivano l'albergo detto della Gardanina sulla prossima sponda, avevano in consegna la chiave del grande castello. Approdare accostando ai paletti del fragile pontile, salire all'osteria, star sotto la pergola a guardare i Castelli, poi, provvisto della chiave, raggiungerli e intromettermi nella confusione piranesiana delle scale, dei ballatoi, delle bertesche, dei camminamenti di ronda e degli antri oscuri del pianterreno, era il piacere che mi concedevo quando avevo gentile compagnia da stupire o incantare. Vi rimasi, una volta, assediato da una burrasca improvvisa e nel cuore di una storia d'amore mancata, alla quale sorrise soltanto una splendida rosa, unica, che pendeva sul fondo nero di uno speco nell'imminenza del nubifragio.

Molto tempo dopo, nell'ultimo dopoguerra, l'enorme chiave che le due donne della Gardanina mi affidavano un paio di volte la settimana, divenne per me una specie di bacchetta magica al cui tocco si apriva la porta di un paradiso terrestre ricchissimo di frutti proibiti. Ma passarono gli anni, scomparvero le due donne della Gardanina col loro albergo, si insabbiò la piccola darsena, svanì il pontile coi suoi teneri paletti e ciottoli che brillavano sul fondo di acqua tersa, sparirono il salice piangente, il cespuglio dei nespoli, l'argenteo ulivo, la magnolia e l'esile filare delle viti nell'orto sulla balza che scoscende.

Forse nulla è scomparso, se non l'aria e la luce di quel tempo. L'Arcipelago Malpaga nereggia sempre sulle acque al tramonto, imbiondisce sotto la luce del mezzogiorno, s'inazzurra contro la costa luinese al mattino. I motoscafi e le barche lo toccano col loro becco ferrato, i gitanti lo insozzano di carte e di barattoli, la sciagurata impresa di chissà quale comitato lo ha deturpato con una bianca e funerea colonna marmorea sovrastata da bronzea insulsaggine sullo sperone più vicino a terra. Un'associazione che tutela i castelli lo ha preso in cura, sperabilmente per lasciarlo com'è, splendida, meravigliosa rovina, un giorno dominata da una torre, che coi versi latini di Gaudenzio Merula diceva di sé, in una distrutta lapide: «Vitaliana vocor Verbani turris in undis Edita, primariae nomina stirpis haben. Come dire: Costruita sulle onde del Verbano, mi chiamo Vitaliana dal nome di un capostipite». L'aveva infatti innalzata nel nome augurale di Vitaliano Borromeo, il conte Ludovico nel 1519.

Ancora oggi i Castelli di Cannero appartengono ai Borromeo, che hanno il merito di mantenerli come il tempo li ha modellati,

dentro e fuori, intatto residuo di lontane età posato sul drappo azzurro del Verbano, incastellata corona, che sembra ripetere il disegno del motto HUMILITAS, gloria e simbolo della grande famiglia.

Qui Touring, febbraio 1983

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica