«Sono una gazzella che sa diventare un leone» Howe: «È finito il tempo di esser preda. Mi farò un tatuaggio e ci scriverò perseveranza»

da Osaka

Si farà un tatuaggio sul corpo. «Ci scriverò: perseveranza. È la mia parola chiave», racconta Andrew Howe. Ha passato metà della notte a casa Italia tra feste e sogni, dopo aver infilato la medaglia d’argento al collo. All’alba («Erano le tre») è andato a dormire e si è svegliato a mezzogiorno. Poi tutto di fretta: una premiazione del Laureus, davanti ai vertici dirigenziali della Iaaf, la federazione internazionale, una stretta di mano con Donald Thomas, il saltatore in alto delle Bahamas ex giocatore di basket, un incontro gestito dalla Nike, lo stesso sponsor dell’Inter. Da qui il pasticciaccio sul suo tifo dopo un incontro a Brunico. «È mia madre che tifa Inter. Io ho una forte simpatia per Mancini, che ammiravo tantissimo da calciatore quando giocava nella Lazio».
A Osaka, Andrew si è scoperto campione autentico, non è più l’adolescente che sognava di emulare Carl Lewis. «Credo che quella fase sia finita già l’anno scorso quando ho vinto gli Europei - dice Howe - e adesso devo capire se, rispetto ai miei avversari, sono ancora preda o cacciatore. Diciamo che mi sento una gazzella, che si alza e sa che dovrà correre più veloce del leone. Però in una situazione come quella di ieri, quando bisogna dare tutto all’ultimo salto, mi sento anch’io una bestia feroce».
Per il momento è una preda sulla quale si sono affannati molti politici. Con auguri e complimenti. È bello salire sul carro del quasi vincitore. Molti amici, invece, non sono riusciti a fargli i complimenti. «So che ce ne sono stati molti da parte dei politici - dice Andrew - e spero siano stati sinceri. Di sicuro conosco Veltroni e tra noi c’è stima. Andammo insieme a Nairobi nel 2001 per promuovere la candidatura di Roma (per i mondiali 2005 poi assegnati a Helsinki n.d.r.) e feci ridere tutti perché gli chiesi se era di destra o di sinistra: la verità è che io di politica non capisco nulla».
Oggi Howe è un cittadino del mondo, entrato nella nuova generazione dei campioni del lungo, quella che con Saladino, di soli due anni più vecchio (22 contro 24), ha preso il posto che era di statunitensi e cubani. «Ma gli altri non andranno in pensione - ride -: penso che presto Mokoena cercherà di prendersi la rivincita. Diciamo che adesso è il momento dei latini. Io ho il vantaggio di aver dentro il gusto per il salto: per me è ancora un divertimento». Ha dentro salti e musica, il prossimo anno vorrebbe fare un tour d’Europa con la sua band.
Invece questa medaglia, frutto prima di tutto del talento, è merito di chi? Di mamma Renée e non della federazione, come dice Evangelisti? «Di entrambi», risponde lui. «Mamma ha scelto l’Italia perché così è andata la sua vita, ma da quando gareggio la federazione mi è sempre stata molto vicina». Ognuno coltiva l’orto a modo suo. E la federazione ha frutti ben grami. Figurarsi se non si tien stretto il cocco.
Ora tutto è pronto per il ritorno a Rieti.

Howe toglierà la tuta e rimetterà i panni del batterista scatenato dei Craiving, il gruppo con cui ha già inciso un cd: «Sono fermo da tanto, va a finire che sfondo la batteria». Ma per il futuro non mancano le speranze. Andrew ne ha tre, ben precise: «Diventare il più grande batterista al mondo, vincere qualcosa a Pechino e vedere la mia Lazio almeno nelle semifinali di Champions».

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