Sono i tassisti la nuova classe privilegiata?

Arturo Gismondi

Non mi sentirei di difendere in toto i tassisti dai quali, avendo deciso di usare per i miei spostamenti il loro servizio, mi sono sentito a volte tradito ascoltando al telefono l'annuncio che «non ci sono taxi in zona», e constatando, al parcheggio più vicino, che non c'era traccia di macchine, bianche o gialle che siano.
Però l'altra mattina, sul Giornale Radio 24 delle ore 7, proprietà Confindustria, ho ascoltato con stupore un servizio, detto «panino», così concepito: inno nazionale in musica, poi voce di Prodi che deplora vibratamente «la protesta irragionevole» e infine, a completare il siparietto, inno nazionale, cantato questa volta da voci maschie e italiche, come neanche a Monaco il giorno prima. Su molti giornali, poi, si indulgeva e si indulge alla definizione del tassista come «categoria privilegiata», monopolista da perseguire senza tanti riguardi a difesa della cittadinanza tutta.
Mi ha colpito come paradossale, ma il paradosso aiuta a riflettere, l'intervento di un lettore del Foglio che a motivo di tanta vis persecutoria definiva i tassisti «i kulaki dell’Italia d'oggi». Ricordo quel che si leggeva sulla «Storia del Pc(b)» ai tempi di Stalin e di Togliatti sulla figura abbietta del kulako, che non era un ricco latifondista, ma un contadino medio, o piccolo, il quale si macchiava di un delitto contro lo Stato socialista non volendo affidare il suo campicello al colcos di proprietà dello Stato sovietico. Il confronto fra il tassista e il kulako è paradossale. Al tassista andrà meglio, va da sé. Ma l'antipatia, il furore montante, la definizione del proprietario della macchina sulla quale lavora 10-12 ore al giorno, il doppio di uno statale, quale detentore di un privilegio inammissibile e vessatorio, e il ricordo di quel siparietto di Radio 24 coi due inni nazionali e in mezzo la frase prodiana, sono cose difficili da dimenticare.
Sui giornali, per reazione, il ricorso all'ironia e al paradosso si è fatta irresistibile, i kulaki di un lettore diventavano, per un altro, «gli untori», i diffusori della peste italiana. E una delle pagine più belle del Manzoni è la pietà del monatto che sottrae l'untore alla folla inferocita: «Va, va, povero untorello, non sarai tu a spiantare Milano...».
Non sono un giuslavorista, né so molto di questa scienza, ma mi ha colpito un editoriale sul Corriere della Sera di Piero Ichino il quale giustificava il governo che, sempre pronto a istituire «tavoli» nei quali appaiono i volti raggianti di coloro che vi hanno trovato posto, Confindustria e sindacati in primo piano, non aveva ritenuto di consultare tassisti, farmacisti e simili, con l'argomento che le concertazioni hanno un senso se i protagonisti sono d'accordo sui fini, e insomma sulle cose da fare, come è nei «tavoli con le parti sociali». Se no, meglio lasciar perdere.
E qui la memoria è corsa colpevolmente, e ancora una volta, all'esempio sovietico: il gosplan dell'era staliniana, che dettava in anticipo i traguardi da raggiungere, tutti d'accordo prima e dopo. E un po' anche alla cupola corporativa di Giuseppe Bottai: istituzioni tutte dalle quali saranno sempre banditi i tassisti, i barbieri, gli idraulici, ma anche i farmacisti che non siano dipendenti delle storiche Farmacie Comunali Riunite di Reggio Emilia. Esempio fulgido, forse, da indicare per il futuro.
a.

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