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Ma come sono lontani United e Barça

La coppa dei debiti. Questa è l'ultima, rancorosa vendetta del calcio italiano nei confronti delle due finaliste di Roma: novecentosessanta milioni, l'esposizione del Manchester United, quattrocentotrentanove il conto sbilanciato del Barcellona. Non possiamo fare tanto i furbi, la lettura analitica di queste cifre porterebbe a una verità diversa da quella che riguarda i nostri club, i più illustri, che il sistema fiscale da una parte danneggia, dall'altra salva. Il Manchester United ha vinto ieri il suo diciottesimo titolo inglese (l'undicesimo di sir Alex Ferguson), pareggiando in casa con l'Arsenal. Il pubblico dell'Old Trafford ha atteso la fine della partita, la consegna della coppa incoronata, i fuochi d'artificio, senza invadere il terreno di gioco, restando ai propri posti, mentre sul campo i calciatori venivano raggiunti dai propri parenti, la famiglia Ronaldo, madre e brigata di fratelli e sorelle, il baby in braccio a Neville, la Ferguson family, la faccia da schiaffi del romanaccio Chicco Macheda, che a diciassette anni è già in paradiso con il sogno realizzato di andare a Roma per giocare, con gli altri, la finale di Champions. Il Barcellona aveva già dato, vincendo pure la coppa di Spagna, dopo aver già ipotecato la Liga. La realtà di queste due squadre, di queste due città è anche la realtà di un calcio completamente diverso dal nostro.
Gli inglesi hanno assorbito la parte migliore del football latino, hanno appreso le lezioni tattiche grazie all'apertura agli allenatori stranieri e alla globalizzazione del gioco. I comportamenti o, come si dice, «l'approccio» all'evento, è rimasto, per fortuna, immutato: è quasi impossibile vedere un calciatore britannico addobbato con fascetta tra i capelli o addirittura il fermaglio a tenere la zazzera e l'ondame; è praticamente impossibile vedere un calciatore britannico ingannare l'arbitro e dunque gli spettatori. Qualche superficiale commentatore, in occasione della semifinale di Champions tra Chelsea e Barcellona, conclusasi con i tumulti nei confronti dell'arbitro, ha detto che gli inglesi si sono comportati come qualunque calciatore italiano, ma ha evitato di ricordare che i «ribelli» di quella sera furono un ivoriano, Drogba, un tedesco, Ballack, un olandese Hiddink, ai quali andrebbe aggiunto il portoghese Bosingwa che diede del «ladro» all'arbitro norvegese Ovrebo, mentre John Terry, capitano del club londinese e della nazionale d'Inghilterra, si presentò nello spogliatoio dei catalani per complimentarsi con i vincitori.
Il fenomeno britannico, nelle coppe internazionali, si spiega anche con l'abitudine del calcio inglese a giocare la partita secca, si tratti della coppa di Lega o della coppa d'Inghilterra, manifestazione che in Italia ha perso totalmente spirito e significato se non per la sola finale (da poco disputata in una soluzione unica) al termine della quale, come si è visto all'Olimpico per Lazio-Sampdoria, lo spiegamento di politici, sindaci, presidenti era inversamente proporzionale all'impegno degli stessi per lo sport. In Premier League il conto dei minuti di gioco di una partita è decisamente superiore a quello delle gare italiane, così come è inferiore il numero degli interventi dell'arbitro (e dei massaggiatori o medici).
Il calcio spagnolo è reduce dal successo nel campionato europeo per nazioni e ha piazzato il Barcellona in finale. La qualità tecnica della Liga è indiscutibile, la partecipazione del pubblico è dello stesso livello: sia in Inghilterra, sia in Spagna gli stadi sono caldi di tifo ma non di mortaretti, gli speaker non sono invasati. La stessa battaglia per la riforma e la nomina di un presidente della lega professionisti italiana rappresenta la fotografia, buffa, della cosiddetta organizzazione e mentalità calcistica nostrana. Va da sé che, per effetto domino, il calcio italiano, nonostante i quattro titoli mondiali conquistati dalla nazionale, viva una contraddizione continua, camminando a un passo diverso, con rare eccezioni (il Milan, per intendere, ma che pensa di vivere di nostalgia e deve fare i conti con una realtà economica diversa dal proprio stesso passato colossale). Nessuna squadra italiana risulta tra le protagoniste di questa stagione di Champions, l'Inter vicina al suo quarto titolo consecutivo, ha tradito per la 44ª volta, il Milan non è andato avanti nemmeno in Uefa, la Juve e la Fiorentina idem come sopra. E l'Italia non è più l'approdo sognato dai grandi del calcio mondiale, come accadeva nei favolosi anni Ottanta e Novanta. A Roma saremo gli osservatori non di una semplice partita ma di un gioco che, da noi, non è più tale.


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