da Milano
Per vent'anni ha interpretato l'uomo «affamato» di femmine. Ma il Lando Buzzanca che stiamo vedendo in questi giorni in Tv è diverso. È stato Pietro Bernardone, papà di San Francesco d'Assisi, nella fiction di Raiuno. E sempre sul primo canale domenica vestirà i panni sgualciti di Don Ippolito, psichiatra ante litteram ne La baronessa di Carini. Dal 9 novembre tornerà sul grande schermo, avvolto nelle lussuose vesti dell'avido principe Giacomo dei Vicerè di Roberto Faenza. E non è finita. Sarà ancora il commissario Vivaldi, il protagonista della miniserie Mio figlio, che tanto scalpore fece lo scorso autunno perché introduceva un personaggio gay in una fiction per tutta la famiglia. Ruoli intensi, di spessore, che dice lui, «Mi calzano a pennello. Via, non posso certo recitare ruoli scritti per i personaggi dei reality», scherza.
Dal suo ultimo film in costume, Secondo Ponzio Pilato, sono passati vent'anni...
«Pensavo di più. In effetti non mi è mai piaciuto recitare in costume, passare ore sotto le mani di truccatori e parrucchieri. Ho fatto un centinaio di film recitando i ruoli più disparati, ma al massimo dovevo cambiare taglio di capelli o far crescere i baffi».
Ora, però, si è cimentato persino con una fiction a sfondo religioso.
«Sono attratto dal soprannaturale e ammiro la spiritualità dei personaggi, anche se il mio Dio non è quello della Bibbia, vecchio cinque miliardi di anni, magari sdentato ma sempre arrabbiato. Certo, Pietro Bernardone di spirituale ha poco, visto che arriva a incatenare il figlio pur di non perderlo».
Dal medioevo di Francesco d'Assisi, domenica farà un salto nell'Ottocento della Baronessa di Carini.
«Don Ippolito è un personaggio all'avanguardia, un uomo di scienza, medico, fra i primi a utilizzare la tecnica dell'ipnosi. Ma è anche un ex rivoluzionario caduto in disgrazia che per campare deve affittare una stanza ammobiliata a un giovane».
E si ritrova a fare i conti con una leggenda ambientata nel Cinquecento, che narra come la baronessa di Carini fu barbaramente uccisa dal marito che la colse in adulterio.
«Si scopre che l'amante della contessa rivive nel suo giovane affittuario. Con l'ipnosi, Ippolito aiuta quell'anima del passato a correre verso il suo destino».
Sempre nell'Ottocento è ambientato I Vicerè, tratto dal celebre romanzo di Federico De Roberto. Lei qui è il principe.
«Giacomo è un personaggio che capita una volta sola nella vita di un attore, se capita. Il principe è il Gattopardo anche se è venuto cinquant'anni prima. Ed è una maschera shakespeariana, cattivo, legato al potere, superstizioso al punto tale da odiare persino suo figlio, convinto che sia lui a "portargli" il male. Finché non emerge questo suo immane, immenso desiderio d'amore. Dentro l'odio c'è l'animale uomo che ha sofferto, non la bestia senz'anima».
Un personaggio complesso...
«Io non sono quel tipo di uomo nella vita, ma gli impulsi di Giacomo sono universali, ognuno di noi poi sceglie come vivere».
Dopo questo squarcio di passato, torna al ruolo moderno del poliziotto col figlio gay ne Le nuove storie del commissario Vivaldi.
«Le riprese inizieranno la settimana prossima: quel ruolo l'ho inventato io, puntando sulla storia di due uomini, un padre e un figlio, che si amano nonostante le loro differenze, come in Cavalleria rusticana - dice l'attore e canta i versi in dialetto - "Se io muoio e vado in Paradiso, ma non ti trovo, neanche ci entro"».
E dire che le femministe negli anni Settanta strappavano i manifesti dei suoi film, tacciandola di essere un "macho" reazionario...
«Solo perché non andavano al cinema! I miei film erano un omaggio alla donna. Anche se facevo ridere, interpretavo un personaggio drammatico, un uomo insicuro, in difficoltà di fronte all'altro sesso».
Tarantino ha rivalutato anche lei?
«È Tarantino che dovrebbe essere rivalutato, che diritto ha di parlare del nostro cinema? Comunque, il metro del successo me lo danno i giovani che mi fermano per strada. Perché i tempi sono cambiati, ma io no».
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