Sono peggio del dottor Mengele

Voi pensate, come me, che il lavoro del medico sia missione, scienza, abnegazione, amore. Quindi non può essere vero che il professor Pier Paolo Brega Massone, autore di 21 ricerche repertate nella U.S. National library of medicine, una Treccani della medicina mondiale gestita dall’Istituto nazionale per la sanità degli Stati Uniti e consultata dagli studiosi dei cinque continenti per cercarvi risposte ai loro dubbi, possa essere - al pari degli altri 13 medici finiti insieme con lui in galera o agli arresti domiciliari - peggio del dottor Joseph Mengele.

Eppure questo ci dicono i pubblici ministeri Grazia Pradella e Tiziana Siciliano: che lui e i suoi complici, votati per giuramento a salvare le vite, avrebbero praticato «l’omicidio aggravato dalla crudeltà»; avrebbero eseguito interventi chirurgici «dannosi, inutili, avventati e inspiegabili»; avrebbero operato ignari pazienti, in particolare anziani, «in condizioni di forte debilitazione, nonostante non fosse necessario», uccidendone cinque; si sarebbero resi responsabili di «circa 90 casi di lesioni gravi o gravissime». La casistica è sconvolgente: una decina di tubercolotici curati con l’asportazione del polmone, anziché con la streptomicina e il ricovero in sanatorio; una giovane donna privata della mammella senza motivo; un’anziana novantenne, colpita da tumore, finita tre volte sotto i ferri. E tutto questo perché? Per soldi. Sarebbero state intercettate numerose conversazioni in cui «l’interesse remunerativo» era «subordinato all’interesse per il paziente».

Il solito movente, sempre lo stesso: degenze da allungare, rimborsi da intascare. Così lo stipendio base di alcuni medici, che era inferiore a 2.000 euro al mese, lievitava fino a 27.000. Almeno il dottor Mengele, l’angelo sterminatore di Auschwitz, nella sua follia pretendeva di farlo per il bene della razza ariana, per il progresso della conoscenza, per impedire le epidemie di tifo petecchiale, per sconfiggere la noma, una cancrena della guancia che colpisce i bimbi denutriti, e spediva gli occhi, le ossa, gli organi interni, i vetrini col sangue delle vittime al suo maestro, il professor Ottmar von Verschuer, al Kaiser Wilhelm Institut di Berlino. Entrambi convinti - il genetista antropologo e il sadico allievo che si esercitava in macelleria sui prigionieri ebrei - di poter svelare i misteri dell’ereditarietà, della gemellarità, del nanismo. Ma questi di Milano? Non era mica un lager. Li aveva assunti una clinica che fin nel nome s’era messa sotto la protezione di Santa Rita da Cascia, l’«avvocata dei casi impossibili».

Il corpo, ci insegnavano da bambini, è un tempio. Un giorno, non molti anni fa, i medici hanno deciso di sconsacrarlo. Da allora le persone sono diventate macchine come le altre, cave per pezzi di ricambio, opportunità di reddito. È accaduto quando lo Stato, nel 1975, ha stabilito che per legge si può essere dichiarati morti anche se il cuore batte, il sangue circola, il colorito appare roseo, la pelle promana calore, l’urina continua a fluire in vescica. Nei templi si sta in ginocchio. Entrateci da padroni e potrete farci di tutto. Persino buttare dentro il torace, prima di ricucirlo dal collo al pube, i guanti di lattice usati durante l’espianto, come racconta Silvana Mondo, madre di un giovane triestino, morto a 19 anni, che fu privato degli organi dopo un incidente stradale.

Lo sapevate che per due volte è stata presentata in Parlamento una proposta di legge con le firme di 32 deputati dell’Ulivo, dell’Italia dei valori, dei Verdi, dei Comunisti italiani e di Rifondazione comunista, che vorrebbe destinare i corpi delle persone in morte cerebrale «a fini di studio e di ricerca scientifica», cioè agli esperimenti, con unico obbligo per lo Stato di «restituire la salma alla famiglia in condizioni dignitose entro un anno dalla data della consegna»? Una salma col cuore che pulsa per 365 giorni! Il professor Angelo Fiori, emerito di medicina legale della Cattolica, mi ha mandato qualche mese fa una fulminante quanto purtroppo infruttuosa riflessione che egli spesso proietta nel corso delle lezioni e che ha tratto da un editoriale scritto nel 1999 da Richard Smith, direttore dell’autorevole British journal of medicine: «La morte è inevitabile. La maggior parte delle malattie gravi non può essere guarita. Gli antibiotici non servono per curare l’influenza. Le protesi artificiali ogni tanto si rompono. Gli ospedali sono luoghi pericolosi. Ogni medicamento ha anche effetti secondari. La maggioranza degli interventi medici dà solo benefici marginali e molti non hanno effetto. Gli screening producono anche falsi positivi e falsi negativi. Esistono modi migliori di spendere i soldi che destinarli ad acquisire tecnologia medico-sanitaria».

Dall’alto della sua esperienza di cattedratico ottantenne, Fiori soggiunge alla diapositiva successiva: «Ma questi sono discorsi che nessuno vuol più sentire».

Eppure noi continuiamo a nutrire una sconfinata, illogica fiducia nella medicina. Un po’ meno, da ieri, nei signori della vita e della morte che hanno profanato il tempio. stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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