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«Sono il sarto dei vip Ma io volevo solo spogliare le donne...»

La Sicilia, Milano, l’America. Gianni Campagna è partito da Roccalumera, vicino a Taormina ed è arrivato a vestire i divi di Hollywood e i miliardari di Wall Street. In mezzo c’è Milano: qui ha iniziato a fare il sarto a 18 anni, qui è diventato famoso. Fino a comprarsi un palazzo intero, all’angolo fra corso Venezia e via Palestro: l’ha ribattezzato Palazzo Campagna e ci tiene la sua boutique, dove capita di trovare ordini da Berlusconi, Montezemolo, Sharon Stone, Jack Nicholson, Bill Clinton. Dalla sua scrivania, che è un enorme tavolo da lavoro, controlla lo struscio di corso Venezia, al di là delle vetrine, i manichini, le fotografie e le dediche che tappezzano il negozio.
Quando ha cominciato a cucire?
«A dieci anni. A tre anni ho perso il papà, ero il quinto di cinque figli. Dovevo lavorare».
E come mai proprio il sarto?
«Avevo visto L’uomo che sapeva troppo e mi sono detto: voglio vestire i divi di Hollywood. Le dive, soprattutto: spogliarle mi sembrava un mestiere interessante».
Poi si è trasferito a Milano...
«Prima a Messina, a 14 anni. Andavo a Taormina in bicicletta, cercavo una fanciulla da amare. Non da sposare, eh. Arrivavano Cary Grant, Clark Gable, Humphrey Bogart e sognavo di vincere anch’io un Oscar. E poi ce l’ho fatta, me l’hanno dato a New York, come migliore sarto al mondo».
Perciò è venuto a Milano, per vestire i divi?
«Certo. Era il ’62, mi sono presentato subito da Caraceni, che era il migliore. Bussai e dissi: dovete prendermi per forza».
E come si è ambientato nella nebbia lombarda?
«Mi sono trovato subito bene. New York e Londra hanno imparato da Milano il ben vestire, il buon mangiare e l’opera. Amo ancora Milano, anche se era più bella all’epoca, quando i portinai mi salutavano in milanese: uè terùn».
Chi erano i clienti allora?
«Onassis, l’avvocato Agnelli, Cuccia, il principe Ranieri, Gary Cooper, la Loren. E poi Greta Garbo, James Stewart. Mi divertivo».
E il successo è arrivato così?
«Eh no. Alla sera frequentavo la scuola di stilismo e modellismo, il commendatore Carlo Secoli mi faceva pagare 10mila lire al mese. Ma Caraceni me ne dava 9mila, così dall’una alle tre di notte tagliavo i vestiti per pagarmi gli studi».
Una vitaccia...
«Poi sono stato anche da Baratta, faceva i cappotti per Angelo Moratti e Jacqueline Kennedy, ho girato tutte le sartorie migliori, facevo un po’ di spionaggio. Poi mi sono comprato sia Caraceni sia Baratta, l’allievo che compra il maestro».
Insomma quando è diventato famoso?
«Nel ’66 ho ricevuto l’Ago d’oro e ho aperto una sartoria tutta mia, in corso Vercelli. Il premio mi ha dato pubblicità, ero sommerso di lavoro. Mi sono comprato la 124 spider, al sabato andavo al Piper e la domenica all’Idroscalo».
Da Taormina all’Idroscalo?
«Mi allenavo in canoa, la mia grande passione. E poi giravo in bici. Il mio cuore faceva 44 battiti al minuto, come quello di Coppi».
Un atleta...
.«Avrei potuto. Ma l’atleta dura dieci anni al massimo, il sarto tutta la vita».
In bici però va ancora, si è fatto fotografare con la coppola, in giro per Milano...
«Se la Moratti mi facesse le piste ciclabili... Ho regalato una coppola a lei e una a Formigoni. Comunque ora giro poco, da quando mi si è rotta la vertebra basta sport. Ho preso 40 chili. Ma il cuore funziona sempre alla grande».
A un certo punto ha chiuso la sartoria. Come mai?
«Troppo lavoro. Sono andato a Torino al Gruppo finanziario tessile. Poi a Mantova alla Lubiam e nel Gruppo Marzotto. Alla fine mi sono stufato e nel ’90 sono tornato a Milano, con la sartoria in San Babila».
E poi si è comprato questo palazzo. Dicono abbia pagato 70 miliardi di lire, nel ’99. Dove ha trovato tutti quei soldi?
«È stato il mio amico Rick Adams a darmeli. Lui è americano, ha fatto i miliardi grazie a internet».
E perché le ha dato tutto quel denaro, scusi?
«Perché nessuno riusciva a vestirlo bene: è enorme. Le giacche gli tiravano sempre, così indossava i giubbotti e Cipriani lo metteva a mangiare in cucina. Ma questo prima che incontrasse me».
Che cosa gli ha fatto?
«Gli ho solo detto: “Ma ti faccio io i vestiti”. Sono andato fino in Virginia per le prove».
È rimasto soddisfatto?
«Era così felice che a Saint Moritz ha sciato col cappotto in vicuna: non era mai riuscito ad averne uno su misura. Però mi ha chiesto: perché devo aspettare così tanto? Voleva darmi un assegno in bianco per comprarmi un’azienda e accelerare i tempi di consegna».
Avrà accettato...
«Non subito. Poi però gli ho detto che c’era questo palazzo in vendita. E lui: compralo. Ci ha messo il 40 per cento. Poi ho continuato a girare per gli Stati Uniti, una settimana al mese per gli appuntamenti coi clienti: New York, Los Angeles, la Florida, il Connecticut dove c’erano Cerruzzi e il suo vicino Paul Newman».
E come facevano a conoscerla?
«Ho messo un’inserzione sul Wall Street Journal. Mi spedivano i fax con le richieste, poi io li ricevevo in una suite d’albergo per le prove. Così nel 2000 abbiamo inaugurato questo palazzo e sono venuti ospiti da tutto il mondo».
Ma al suo amico Adams bastano davvero solo i vestiti?
«Be’ sì. Lui ha il sarto privato, e io ho il palazzo privato».
Ha molti clienti celebri...
«Il più simpatico è Jack Nicholson, che la pensa come me».
Cioè?
«Mi dice: “Gianni, devo mantenere tre mogli e cinque figli, io vorrei passare il tempo a fare l’amore, ma mi tocca lavorare... ”».
Ma lei è sposato?
«Sì. Ma mia moglie sa che non sono un prete. Per esempio Pierce Brosnan è diverso, lui è più un tipo da famiglia. Sono anche stato al suo matrimonio».
Il primo James Bond vestito da un italiano. E poi Sharon Stone...
«Mitica. Ero da Cipriani e un amico ha detto che voleva conoscermi. Siamo andati a casa sua e lei è uscita dalla doccia, in accappatoio... Mi è venuto un colpo. Le ho preso le misure, non so se mi spiego».
Abbastanza. Che cosa ordina Sharon Stone?
«Le faccio i cappotti di vicuna o i tailleur classici. Non mi paga, ma in cambio vado a spasso con lei».
In Italia chi veste?
«Montezemolo è di casa, poi Leonardo Del Vecchio, Lapo Elkann, Berlusconi, ho vestito anche il marito di Marina Berlusconi per il suo matrimonio».
Se cambiano taglia che fa?
«Risistemo a occhio. Io faccio una o due prove all’inizio e poi bastano per tutta la vita».
Come mai i suoi clienti sono quasi tutti uomini?
«In dieci minuti scelgono e pagano cash. Come Ronald Perelman, il boss di Revlon: in cinque minuti si fa fare 40 abiti. Non all’anno, al mese. Per ogni tessuto vuole cinque modelli uguali, così ne lascia uno in ogni casa e non deve mai preparare le valigie».
E le donne invece?
«Loro vanno bene negli showroom, non dal sarto. Perché nel periodo in cui devono aspettare cambiano idea 300 volte».
Quanto tempo ci vuole per un abito? E quanti soldi?
«In media tre settimane. Dai 4 ai 25mila euro, a seconda del tessuto».
Gli uomini non cambiano mai idea?
«Poco. C’è qualcuno che non vuole neanche una piega, che non sa che cosa sia il cannello... I più pericolosi».
Sente la crisi?
«Quest’anno noi abbiamo incrementato il fatturato. Forse i russi sono un po’ squattrinati. Ma i miei clienti americani no».
C’è qualcuno che rimpiange?
«Enrico Cuccia. Un uomo di poche parole e molti fatti. Mai voluto niente in regalo, nemmeno una cravatta».
È vero che non ha voluto vestire Bush?
«Non mi piaceva. Gli ho lasciato i tessuti da scegliere, ma poi sono sparito. Invece vorrei fare un abito a Obama».
È ricco?
«Se ho cento euro in tasca li regalo a qualcuno. Vivo in affitto in piazza Eleonora Duse, ho una casa sul lago a Carate Urio, vicino a George Clooney. Lui sì che è sempre pieno di donne... ».
Il mondo della moda è un po’ snob, come ci si trova?
«Tanti si atteggiano a grandi stilisti, ma è perché non lo sono. Nessuno che sappia fare un modello o spiegare come si taglia e cuce».
Che fa, critica la moda italiana?
«La moda mi piace. Ma le maison funzionano grazie ai sarti, ai commerciali, al marketing. Gli stilisti sono dei finanzieri. E il compra e getta fa bene solo a loro. I miei abiti durano venti o trent’anni.

Non tre mesi».

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