Controcorrente

Sono seguite a vista come carcerate: «Solo così salviamo la loro vita»

Una giornata nel reparto del Niguarda di Milano, all'avanguardia nella cura del disagio: «Sono le prime della classe, anche in questo»

di Maria Sorbi

Poco dopo le 12 in sala mensa arrivano i vassoi. Cala il gelo. Le ragazze scrutano il piatto della vicina per vedere se ha un maccherone in meno. Impugnano la forchetta solo se sollecitate, a fatica. Giocherellano con il cibo, lo sminuzzano in micro pezzettini, fingono di sporcare il sondino che hanno nel naso con il sugo, così lo potranno pulire col tovagliolo e non saranno costrette a ingerire le calorie del condimento.

Il pranzo nel reparto di disturbi alimentari dell'ospedale Niguarda di Milano è sempre un momento delicato. Le pazienti vengono seguite a vista, boccone dopo boccone, finché non finiscono tutto. Per loro è un dolore, per i medici è l'unico modo per salvarle da un male che le sta divorando riducendole a stecchini di 20 chili.

Le adolescenti finiscono lì dopo tanti mesi di anoressia silenziosa, consumata tra liti e pianti dentro casa. A volte in accettazione arrivano anche bambine di 11 anni che magari si rifiutano di mangiare e bere per tre giorni di fila. E i ricoveri possono durare più di un mese. Quando stanno meglio le pazienti continuano a frequentare l'ospedale ma solo di giorno, per oltre un anno.

Guardi quelle ragazze e pensi a quanto sarebbero belle con addosso qualche chilo di più. Le vedi fragili come cristallo, prigioniere. Non sono innamorate, tra loro non parlano di ragazzi ma solo di come smaltire «quello schifo» che era nel piatto. In Italia quello di Milano è stato il primo reparto ospedaliero dedicato all'anoressia. «Altrimenti le ragazze vengono ricoverate nei reparti di pediatria, di psichiatria, di medicina - spiega il primario Ettore Corradi - ma è importante avere un luogo dedicato dove affrontare la malattia in tutte le sue sfaccettature. Molti più ospedali dovrebbero avere un reparto del genere». Le richieste per i ricoveri arrivano da tutta Italia ma le liste d'attesa non si riescono mai a smaltire per intero. Fondamentale per il funzionamento del reparto è il supporto dell'associazione Erika, che affianca i medici con psicologi, attività ludiche per distogliere le pazienti dal chiodo fisso del peso e sportelli di ascolto per i genitori che non sanno più che fare. E poi c'è uno staff di insegnanti che danno una mano a non restare indietro con i programmi di scuola. In Italia esiste anche una rete riabilitativa psichiatrica a Todi ma manca una rete di reparti ospedalieri. «L'anoressia non è un problema di modelle ma di modelli culturali - spiega Corradi -. Quando a un adolescente mancano le regole, il rischio è che se le imponga da solo e le sue, su se stesso, saranno molto più rigide». L'anoressia è così: una privazione meticolosa e ossessiva, misurabile in centimetri ed etti, portata avanti con una forza di volontà che diventa trappola. «Oggi la famiglia si trova ad affrontare compiti educativi sempre più sfidanti - spiega la psicologa Lisa Lever, associazione Erika -. La complessità delle relazioni, sia fra i genitori, sia nel rapporto tra genitori e figli, è più riconosciuta ed esplicitata di un tempo. In passato si tendeva a guardare soprattutto il rapporto tra madre e figlia, rischiando di trascurare anche altre relazioni importanti (con il padre, nella coppia, nella famiglia allargata), che spesso risultano significative». «Dietro a questi disturbi alimentari - aggiunge la collega psicoterapeuta Alessia Tedesco - ci sono conflitti negati, trattenuti. Le ragazze non sfidano il genitore con un no, come di solito accade in adolescenza, ma pur di non contraddirlo cercano un'altra via di ribellione. L'anoressia è un urlo silenzioso per gridare il proprio disagio».

Tutte le adolescenti ricoverate sono «le prime della classe», bravissime a scuola. «Sono infaticabili nello studio, così come nel tentativo di digiuno». La dietista Luisa Cometto segue il piano alimentare e «tratta» con le ragazze anche sul numero dei biscotti che devono mangiare al mattino. Le ascolta ma non molla sulla quantità di cibo. E poi c'è l'infermiera Annamaria Farina che le osserva ed ha imparato a scovare tutti i loro comportamenti malati per non ingerire cibo. «A volte le vedo piangere dopo pranzo, dicono di aver mal di pancia, si sentono in colpa. Però ho imparato che quando fanno il primo sorriso vuol dire che stanno meglio.

E prima delle dimissioni c'è un ultimo passo: un pranzo in mensa con i dietisti, scegliendo da sole cosa mettere nel piatto».

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