Sono soddisfazioni. E Carlo mette ko il passato

È vero, sono soddisfazioni. Ma lui, Carletto nostro, ha fatto quasi finta di niente. «C'è ancora molto da lavorare» ha detto ai suoi in quell'inglese scolastico che è uno spettacolo ascoltarlo, frasi semplici, elementari come quando tentò di tradurre l'italianissimo «chi dorme non piglia pesci» dinanzi al Beckham assopito sul lettino dei massaggi a Milanello e ne venne fuori uno sgorbio di espressione che provocò una risata collettiva tra i tanti che masticano inglese (Paolo Maldini il più divertito). Sono soddisfazioni aver messo in fila, prima l'Inter e poi il Milan, in questo viaggio verso il passato che è la preparazione americana del Chelsea transitato anche da Baltimora e dalla sfida al Milan, vinta con qualche discutibile merito. E Carlo Ancelotti non è il tipo da negarsele ma è anche pronto a dar loro il valore ridotto di un veloce ingresso nei meccanismi e nelle simpatie del nuovo club. A Londra è rimasto semplicemente stupito dall'intensità mostrata in allenamento dagli inglesi. «È questa la maggiore differenza rispetto al calcio italiano» confessò qualche giorno dopo l'insediamento con la casacca dei Blues pensando forse al passo felpato e ai ritmi da bandolero stanco del suo Milan.
Sono soddisfazioni anche taluni giudizi privati su qualche esponente del gruppo rossonero che adesso si possono declinare a voce alta. Kalac, per esempio, il perticone australiano, riconfermato nel ruolo di terzo portiere, nell'attesa della guarigione definitiva di Abbiati, promessa per il tardo autunno. «Di crepacuore non muoio più» chiosò una domenica sera dopo aver patito sulla propria pelle l'ennesima disavventura di Kalac. Se lo tenne egualmente Kalac pregando il suo dio di provvedere alla salute di Abbiati e Dida, a dimostrazione che non avrebbe mai tradito l'azienda e si sarebbe arrangiato comunque. Sono soddisfazioni lasciare Leonardo senza più voce e con qualche motivo di sollievo per la prova convincente del suo Milan, resa più leggera dal gol di Seedorf e dalle due traverse (Ronaldinho e Clarence) esibite come testimonianza effettiva di un lento miglioramento del gioco rossonero. Sono soddisfazioni anche quell'ingresso nello spogliatoio del Milan, a Baltimora, scandito dall'abbraccio affettuoso dei suoi che non lo hanno certo né dimenticato e neanche rimosso, come spesso accade dalle nostre parti e nel calcio in particolare. Ma sul cordone ombelicale rimasto intatto, conservato anzi a futura memoria, tra Carletto e il Milan dei reduci, non c'è stato mai alcun dubbio. Lo inseguiranno con sms e telefonate, saranno al suo fianco nelle interviste pubbliche e nei pomeriggi dinanzi alla tv a seguire la Premier league, gioiranno dei suoi successi e spalmeranno solidarietà sui suoi inciampi. Anzi, proveranno subito, quelli del Milan, a far tesoro di quei predicozzi sul far della sera, il più famoso di tutti al ritorno da Istanbul, la coppa vinta e poi persa, sfilata sotto il naso dal Liverpool. «Se siamo uomini veri, torneremo in finale per vincerla» disse Carlo ai suoi nei giorni in cui era impossibile trovare una consolazione a quella delusione trasformata in lutto rossonero. Tipo quello che s'avverte oggi per la partenza di Kakà. «Siamo stati sotto choc per la cessione di Ricky» la confessione pubblica di Ambrosini, il nuovo capitano.

Il rischio è che si trasformi in depressione e poi ancora in una sorta di rassegnazione nei confronti dell'armata Inter che sembra addirittura tonificata dalla partenza di Ibrahimovic. Sono soddisfazioni, d'accordo, ma vedete Ancelotti, è quello di sempre: non tira fuori il petto e non si appunta medaglie. Sa che ad agosto il bello deve ancora venire.

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