Roma - Sono cento anni che si fa il bunga bunga e anche molto lontano da Arcore. Il mistero parrebbe finalmente svelato e sembra condurre nell’Inghilterra di Virginia Woolf, sofisticata scrittrice che non frequentò né escort né sale da lapdance né Lele Mora. Una storiella umoristica per rallegrare il the delle cinque, altro che pratiche sessuali, riti berberi importati da Gheddafi, rari fiori di Bali e altre improvvisate semantiche per l’espressione più contagiosa del 2010 insieme a Waka waka. È vero, c’è una spiegazione ufficiale, autorizzata dagli uomini di fiducia del premier, che fa risalire il nome «Bunga bunga» a una barzelletta, senza spiegare però nei dettagli cosa succeda al povero Cicchitto che (nella barzelletta) sceglie di morire piuttosto che sottoporsi a quel trattamento (ma il capo tribù, nella nota vulgata, lo tratta peggio del Terzo polo: «Allora morirai, ma prima bunga bunga»). In effetti si è incaricata la Bbc di rintracciare le origini storiografiche del bunga bunga, termine che ormai è noto all’estero almeno quanto pizza, spaghetti e mafia.
Il bunga bunga risale ad una famosa burla del 1910. Il protagonista principale è un eccentrico aristocratico inglese, tale Horace de Vere Cole, noto burlone. Questi un giorno contattò l’Ammiragliato britannico fingendosi l’imperatore di Abissinia e informandolo che presto una delegazione ufficiale si sarebbe recata in Gran Bretagna per una visita ufficiale alla HMS Dreadnought, la nave ammiraglia della marina di Sua Maestà. Dopo aver arruolato alcuni artisti (suoi amici) del gruppo di Bloomsbury, tra cui appunto Virginia Woolf, per farli passare come suo entourage, de Vere Cole si recò sulla Dreadnought. I funzionari britannici, ingannati dal travestimento del gruppo (make-up, barbe finte e insegne orientali), cascò nel tranello e li trattò come se fosse una vera delegazione dell’Abissinia. Mentre ammiravano la nave i burloni esclamarono diverse volte «Bunga, Bunga!». Un resoconto della visita (con foto) uscì sul Daily mail, sempre per opera dello stesso Cole. La stessa Virginia Woolf raccontò poi uno spassoso effetto collaterale dello scherzo. Quando qualche settimane più tardi l’autentico imperatore dell’Abissinia giunse in visita ufficiale a Londra, la folla assiepata lungo le vie lo accolse con un grido risonante: «Bunga! Bunga!».
Il termine ricompare quindi alla fine della prima guerra mondiale, quando la Dreadnought affonda un sottomarino tedesco. Il capitano della nave ricevette un telegramma di congratulazioni. Nel testo, soltanto due parole: «Bunga Bunga». Una traccia del bunga bunga c’è anche, riporta la Bbc, in una biografia di Horace de Vere Cole (The Sultan of Zanzibar: The Bizarre World and Spectacular Hoaxes of Horace de Vere Cole, Martyn Downer), che riporta una poesiola umoristica dell’inglese: «When I went on board a Dreadnought ship/ I looked like a costermonger;/ They said I was an Abyssinian prince/ ’Cos I shouted “Bunga Bunga!”».
La tv di Stato britannica è molto interessata al termine reso noto dalle notti di Arcore. Per capirne di più ha interpellato un linguista inglese e il presidente di Global Language Monitor Usa. Il primo, Tony Thorne, autore del Dizionario dello slang contemporaneo, trova che l’uso berlusconiano del termine sia «crudo e infantile. È una specie di africanismo razzista, un modo in cui un europeo può immaginare un rito tribale di abbandono sessuale. È un po’ rude e infantile, si accorda molto bene con l’immagine che credo voglia coltivare Mr. Berlusconi, alquanto sopra le righe». Il direttore del Global Language Monitor invece ci informa, tramite Bbc news, che sui media di tutto il mondo non si contano le storie ispirate al bunga bunga. «Da quando ne ha parlato Mr. Berlusconi quella frase è stata riportata in molte storie in lingua araba. Sui nostri motori di ricerca cinesi ci sono stati oltre 2000 riferimenti al bunga bunga, migliaia in russo».
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