Una clamorosa sconfitta subita dal partito indipendentista al potere a Taiwan potrebbe riaprire i giochi tra le due Cine. La larghissima vittoria dei nazionalisti del Kuomintang nelle elezioni politiche di ieri (il 72 per cento dei suffragi e 81 deputati conquistati su 113) mette il presidente taiwanese Chen Shui Bian in grave imbarazzo. Con questo voto gli elettori hanno sconfessato la sua politica di contrapposizione con la Cina comunista, basata sullobiettivo non troppo celato di arrivare a unindipendenza esplicita e non di fatto, qual è quella di Taiwan fin dal 1949.
Non che il Kuomintang sia un partito filocomunista, tuttaltro. È lerede diretto dei nazionalisti cinesi che, sconfitti dallesercito rosso di Mao subito dopo la Seconda guerra mondiale, ripararono sullisola al di là dello stretto per continuare lesperienza della Cina liberale fondata da Sun Yat Sen nel 1911 dopo il crollo della millenaria vicenda imperiale. Il Kuomintang ha guidato Taiwan per mezzo secolo, inizialmente sotto la guida dellautoritario generale Chiang Kai-shek. Pretese che la sola vera Cina fosse Taiwan, e che quella rossa che occupava tutta limmensa terraferma fosse solo unusurpatrice temporanea: lo stesso che Pechino diceva (e dice tuttora) di Taiwan. Il Kuomintang puntava a unimpossibile riunificazione sotto il suo comando, da attuarsi con la forza; oggi più realisticamente si pone lobiettivo del ritorno di una sola Cina, senza violenza, ma solo quando il regime di Pechino si sarà convertito alla democrazia. Magari tra decenni, dunque: intanto niente provocazioni al «nemico» e tanta saggia vigilanza (con le armi di Washington).
La sconfitta bruciante patita da Chen non chiude comunque la partita politica a Taiwan. Il 22 marzo si voterà per le presidenziali, con Chen impossibilitato a ricandidarsi e il candidato del Kuomintang favorito nei sondaggi. Nello stesso giorno si terrà un referendum, voluto da Chen, sul nome ufficiale del Paese: si sceglierà tra lattuale «Repubblica di Cina» e «Taiwan». Il secondo indicherebbe una volontà di rottura degli attuali equilibri che potrebbe spingere Pechino a pesanti minacce.
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