Scrivo queste righe in nome e per conto di un giovanissimo ragazzo afghano. La tentazione sarebbe definirlo bambino, ma mi sembrerebbe una forzatura: a 14 anni, dalle sue parti, troppe se ne sono già viste e sopportate.
Ne scrivo senza che me l'abbia chiesto personalmente, perché ormai non è più in grado di chiedere niente a nessuno. Mentre i nostri quattordicenni ancora devono scegliere a quale scuola iscriversi, lui è già un cadavere dimenticato. Chissà perché, mi viene spontaneo chiamarlo Hassan, come il tenero e tragicissimo protagonista del «Cacciatore di aquiloni», uno dei più bei romanzi moderni, scritto da un afghano americanizzato in onore del suo Afghanistan. Anche se questo nuovo Hassan non ha più voce, la sua storia mi sta urlando nelle orecchie, come un assordante lamento e una pietosa implorazione. Sembra chiedere almeno d'essere ascoltata. Per quanto mi riguarda, il minimo che possa fare è alzare un poco il volume, diffondendo come un altoparlante il suo terribile messaggio. Perché qualcuno possa sentire.
Prima di tutto le presentazioni. Chi è Hassan? E chi può dirlo. Della sua esistenza, che non era più esistenza, si è accorto un passante nella zona di Forlì, lungo la via Emilia. Osservando per caso un Tir spagnolo, sbarcato qualche ora prima ad Ancona da un traghetto in arrivo dalla Grecia, l'uomo si è accorto che il camion lasciava sull'asfalto una strana striscia rossa. Guardando bene sotto al mezzo, gli è sembrato pure di vedere qualcosa penzolare, come un grosso straccio. Non voglio farla lunga, l'epilogo è scontato: fermato il Tir, s'è scoperto che sotto c'era appeso Hassan. Quel poco che ne restava.
Una veloce indagine ha poi permesso di ricostruire, molto a spanne, la vicenda. Hassan si era legato con delle cinghie rudimentali: la nuca a tre dita dal potente asse di trasmissione, la faccia rivolta verso il basso, a un trenta centimetri dall'asfalto. Che cosa sia successo, non è facile dire. Si ipotizza che i gas di scarico abbiano avvelenato il ragazzino, oppure che si sia allentata una cinghia, oppure che lo stesso Hassan non abbia resistito in quella posizione. Resta il fatto determinante: a un certo punto, la testa di Hassan ha toccato l'asfalto. E il Tir se l'è trascinato via così, per chilometri.
Il resto è tutto un interrogativo. Non si sa se il ragazzino abbia fatto da solo, o se qualche trafficone l'abbia aiutato nel suo viaggio temerario e disperato. Al riguardo, i due autisti spagnoli giurano ovviamente di non sapere nulla. È certo che il camion sia stato controllato alla partenza, in Grecia, e allo sbarco, in Italia. Ma questo dice poco: non è facile scovare un ragazzino nascosto così bene. E comunque, ormai sono dettagli.
Ad Hassan sopravvive solo una carta timbrata il 21 dicembre dalla polizia greca, che prova l'origine afghana e le oscure generalità di un quattordicenne. Purtroppo, si può parlare di nuova tratta nei grandi esodi clandestini. Sempre più spesso gli Hassan afghani cercano la fuga nascondendosi negli angoli più oscuri, gelidi, sporchi e pericolosi dei Tir internazionali. Che cosa li spinga a tanta incoscienza è persino inutile spiegare: la speranza. La speranza di trovare qui, in Occidente, qualcosa di meglio: per quanto equivocato e sopravvalutato, comunque meglio della tragedia continua che vivono dalla nascita a casa propria.
Se scrivo a nome e per conto di questo ragazzino, è solo perché una simile morte non può passare com'è passata: poche righe in cronaca, doverose, manieristiche, stanche. Appunto, per dovere di cronaca.
Se scrivo in nome e per conto di Hassan è solo perché nessuno avvierà veglie e digiuni in suo onore. Nessuno allestirà all'istante una diretta per i rotocalchi del pomeriggio. Tanto meno un talk-show serale. Tempo poche ore, di lui ci saremo sbarazzati. E francamente non mi sembra molto giusto.
È pur vero che ci crollano in testa la Borse. È pur vero che ci sta crollando il governo. Ma un ragazzino di quattordici anni consumato sull'asfalto delle nostre strade non può passare inosservato. Di fronte a un evento di queste proporzioni, quel che rimane della nostra sensibilità dovrebbe almeno sussultare. Troppe tragedie, troppo uguali, per riuscire ancora a sussultare? Se tale è la risposta, significa che siamo ormai prossimi al capolinea. Questo è l'Occidente che si mette in fila a ciglio umido per l'orso Knut. Questo è l'Occidente che chiude i circhi per difendere la dignità animale. Questo è l'Occidente che mette il cappottino di flanella al pechinese, quando fuori tira vento. A nome e per conto di Hassan, non posso esimermi dal dire che questo Occidente ha perso il senso delle proporzioni, ha qualcosa da chiedersi, se non si indigna più, se non è più capace di vera compassione, per un ragazzino consumato sull'asfalto.
Ne sono certo: qualcuno di noi chiuderà il caso dicendo che se Hassan non voleva correre rischi, doveva restarsene a casa sua. Così molti di noi sono messi. Altri, più umani, semplicemente porranno a me una domanda neanche tanto nuova: e tu che fai? Scrivi a nome di Hassan, ma poi che fai? A questa domanda, non so bene come rispondere. Posso solo dire che l'altra sera, quando ho saputo di Hassan, stavano crollando le Borse e stava franando il governo.
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